Il
60% degli `ospiti` dei CIE proviene dal carcere. Sconta una pena supplementare
- e anticostituzionale - perché non è stato mai identificato. Sono gli intoppi
burocratici a garantire il mantenimento dei centri. Sempre più inutili, costosi
e crudeli. I reclusi diventano “sradicati” senza possibilità di reinserimento e
persino merce di scambio tra i paesi di provenienza e l’Italia. All’interno dei
centri anche donne vittime di tratta e lavoratori stranieri che non sono
riusciti a trovare una regolarizzazione.
IL LUOGO COMUNE
Nell’immaginario
collettivo il CIE è un luogo temporaneo dove si rinchiudono i cosiddetti
clandestini, in attesa di mandarli al loro paese. Nella realtà è il
costosissimo risultato di un cortocircuito burocratico. Buona parte di coloro
che vengono chiamati “ospiti” sono di fatto detenuti anche se hanno finito di
scontare la pena. All’uscita dal carcere, lo straniero dovrebbe essere già
stato identificato ed espulso. Ma non avviene quasi mai.
Nel
2007 il governo Prodi ha emesso un atto che semplicemente chiedeva
l’applicazione della legge esistente. Dopo cinque anni la direttiva Amato –
Mastella è rimasta inapplicata. I migranti che dal carcere finiscono nei CIE
dopo aver scontato la pena – secondo l’OIM - sono circa il 60% del totale. La
loro detenzione supplementare può durare fino a un anno e mezzo. “La mia
esperienza dice che non riesci a identificare una persona in un mese non ci
riesci in 18”, dice Giuliano Amato.
“E’
peggio del carcere, almeno lì sai che reato hai commesso e quando finirà la tua
pena. Nel CIE le proroghe sono di mese in mese”, ammette un’operatrice presso
uno sportello a Ponte Galeria, il centro di Roma.
Ma
questa forma di “detenzione amministrativa” è prevista dalla nostra
Costituzione? No, dice Amato. La restrizione della libertà personale è connessa
al compimento di un reato. Il nostro ordinamento prevede il fermo per
identificazione, che può durare al più qualche ora.
COSTI
Il
“cortocircuito burocratico” produce però costi ingenti a spese delle
collettività. Ma anche una nuova curiosa fase. Gli investimenti complessivi
sono in aumento, ma i costi di gestione vengono ridotti al minimo. E’ già stato
proclamato il primo sciopero. A Bologna il sindacato di categoria ha annunciato
per l’inizio di luglio due ore di interruzione dei servizi. La protesta nasce
dopo l’assegnazione dell’appalto del CIE al consorzio OASI di Siracusa, che ha
vinto con un’offerta di 28 euro a persona contro i 70 della precedente
gestione.
A
Gradisca d’Isonzo, in Friuli, la gestione è stata contesa tra la siciliana
Connecting People e la multinazionale francese Gepsa – specializzata nella
detenzione. I francesi avevano vinto l‘appalto insieme a una coop di Agrigento.
Anche a Trapani Milo Connecting People ha perso la gara, vinta invece da Oasi.
Sei milioni per tre anni la cifra dell’appalto. A Ponte Galeria c’è Auxilium,
nata in provincia di Potenza e con un organico di 600 persone. Ha vinto dopo 10
anni di gestione della Croce Rossa. Sono tanti i ricorsi al Tar tra i vari
soggetti. Nessuno vuole perdere gli appalti milionari.
Considerando
che a Roma ci sono 360 posti disponibili – anche se non tutti sempre occupati -
e che l’attuale convenzione prevede circa 41 euro a persona, si può ipotizzare
che Ponte Galeria ci costa 14000 euro al giorno.
Paradossalmente,
però, gli investimenti complessivi aumentano. I 103 milioni di euro del 2011
sono diventati più di 174 nel 2012 e ne sono previsti 216 per il 2013. La corte
dei Conti riferisce che nel 2010 sono stati spesi 140 milioni per la
costruzione, 30 milioni per la gestione e 34 milioni per i rimpatri.
VITTIME
DI TRATTA, LAVORATORI IN NERO E MERCANTI DI UOMINI
Nei
CIE è possibile trovare situazioni di ogni tipo. Tra le più frequenti quella
delle donne – spesso nigeriane - fermate perché irregolari. Le trovano
senza documenti e le portano nei CIE. Qui il loro destino è affidato al caso.
Come testimonia un’operatrice umanitaria, se incontrano un’associazione che
prende in carico la loro situazione possono essere inserite in un percorso di
regolarizzazione ed essere riconosciute come vittime di tratta. Altrimenti
rischiano l’espulsione e il ritorno in Africa, con tutto quello che ne può
conseguire.
Anche
se con minore frequenza, nel CIE finiscono anche i disoccupati. Abbiamo
incontrato un lavoratore senza contratto che non hanno trovato un padrone che
lo mettesse in regola. Nonostante 23 anni in Italia, un’attività lavorativa
costante come edile, una compagna italiana è stato rispedito in Tunisia, un
paese che non era più il suo.
Le
espulsioni non sono procedimenti automatici e “neutrali”. Come ci riferisce
Amato, capita che un paese accetti 100 irregolari subito, mentre un altro dica
di poterne ricevere 2 al mese (o all’anno). Nel secondo caso “si vuole
segnalare un problema”. Così gli espulsi entrano a far parte di una trattativa
più ampia tra i due paesi. Sono sradicati quando va bene, indesiderati. Ma
possono anche diventare una merce tra stati.
INTERVISTE:
-
Giuliano Amato – ex Presidente del Consiglio
-
Marcella Lucidi – Avvocato, sottosegretario del Governo Prodi
-
Simona Moscarelli – Avvocato, OIM
-
Francesca De Masi – Responsabile sportello contro la tratta CIE di Ponte
Galeria
-
Jean Leonard Touadi – deputato PD
di
Antonello Mangano, "Gli
intrappolati. Il cortocircuito dell`identificazione tra CIE e carcere",
Fainotizia.it terrelibere.org, 11 luglio 2012,
http://www.terrelibere.org/gli-intrappolati-il-cortocircuito-dell-identificazione-tra-cie-e-carcere
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