Gli
economisti bocconiani con master a Chicago e i renzini dai sorrisi smaglianti
ci assicurano che sburocratizzando, alleviando le imprese dalle tasse sul
lavoro e organizzando corsi di formazione lo sviluppo dispiegherà le sue ali
radiose nel cielo della Ripresa della Crescita.
Diamoci
una calmata e ragioniamo.
Magari
gli intoppi che impediscono l’uscita dalla crisi occupazionale fossero tutti
qui.
Magari
bastasse qualche pratica in meno e qualche corso in più per saldatori o
tornitori.
Nel
mercato globale sopravvive chi è competitivo.
Nella
competizione ci sono vincenti e perdenti.
Per
essere vincenti occorre aumentare la produttività. Si è più produttivi in tre
modi: abbassando salari e stipendi; aumentando l’orario di lavoro a parità di
salario o stipendio; producendo come o più di prima ma con minore personale
dipendente, vale a dire puntando sullo sviluppo tecnologico a scapito
dell’occupazione.
Semplice,
chiaro, sotto gli occhi di tutti.
I
bocconiani masterizzati a Chicago e i renzini non lo possono ammettere perché
dovrebbero concludere che impoverimento e disoccupazione sono strutturali,
connaturati al sistema e non congiunturali. Dovrebbero riconoscere che Marx,
almeno in queste analisi del capitalismo, aveva ragione.
Nel
periodo 1945-75, quello del capitalismo dal volto umano, fu possibile aumentare
salari e stipendi, diminuire le ore di lavoro, ricollocare prima nell’industria
la manodopera espulsa da un’agricoltura meccanizzata, poi nei servizi la
manodopera espulsa dall’industria in seguito allo sviluppo tecnologico, grazie
a condizioni oggi irripetibili: la ricostruzione dopo le distruzioni belliche,
il basso costo delle materie prime, la grande disponibilità di capitali in un
clima di fiducia e in mancanza di una sensibilità ambientalista. Anche il
welfare si estese. Furono gli anni migliori per la classe lavoratrice di
Occidente.
Quelle
condizioni sono venute a mancare ed è venuta a mancare l’URSS.
Liberatosi
dell’obbligo di vincere la sfida col comunismo novecentesco, il capitalismo ha
potuto riprendere la sua logica ferrea, quella del mercato, della competizione
che obbliga ad aumentare la produttività a spese dell’occupazione.
I
lavoratori espulsi dal processo produttivo sempre più automatizzato non trovano
più posto nei servizi perché il debito pubblico, divenuto ovunque colossale,
obbliga a tagliare i servizi anziché incrementarli.
Questi
sono i fatti, per la cui comprensione non necessitano lauree alla Bocconi né
master a Chicago né un posto nella segreteria renziana, perché sono sotto gli
occhi di tutti.
Allora
ci vuole ben altro che la sburocratizzazione o i corsi di formazione.
Un
orario di lavoro ridotto, un salario decente, un alto tasso di occupazione,
possono essere consentiti solo da un sistema che si sottragga alla concorrenza
internazionale e all’obbligo dell’aumento continuo della produttività del
lavoro.
In
altre parole, occorrerebbe una politica economica rigidamente protezionistica.
Il
protezionismo praticato dall’Italia, a livello nazionale, ci condannerebbe alla
fame. Il protezionismo è concepibile solo a livello europeo: una vasta
area di libero scambio ma chiusa verso l’esterno, con regole precise che
fissino minimo di stipendio e orario di lavoro in tutta l’Unione.
Per
giungere a tanto occorrerebbe una rivoluzione che abbattesse l’attuale UE e
costruisse qualcosa di radicalmente diverso. Nulla di tutto ciò si intravede
all’orizzonte. Bisogna mettersi in testa che la stagione delle libertà, della
forza del sindacato, degli stipendi in crescita e dell’occupazione stabile, è
stata qualcosa di eccezionale e di irripetibile. Continuiamo a comportarci
secondo le modalità di allora soltanto per forza di inerzia e accrescendo il
debito. Il risveglio per gli illusi sarà molto brusco.
Allora
bisogna rassegnarsi ad accettare le linee di tendenza di un sistema in cui una
minoranza della popolazione potenzialmente attiva lavorerà, producendo tutti i
beni necessari all’intera società e godendo di compensi elevati, mentre alla
maggioranza della popolazione, condannata alla disoccupazione, dovrà essere
corrisposto un reddito di cittadinanza.
Per
trovare le risorse necessarie a garantire il reddito di cittadinanza, bisognerà
rivedere il welfare, riducendo ulteriormente le spese pubbliche per asili,
scuole, servizi sanitari e per anziani, pensioni.
Occorrerà
ragionare secondo altri parametri, entrare in un’altra logica. Per supplire alle
lacune di un welfare sempre più misero, bisognerà potenziare il volontariato,
lo scambio nell’ottica del dono, la solidarietà di paese, di quartiere, di
caseggiato.
Dalla
crisi occupazionale si esce pensando in grande.
Non
sembra che i renzini ne siano capaci.
di Luciano Fuschini
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