LA TERRA E’ UNO STRANO POSTO.Se la guardate con gli occhi di Raj Patel. Le
persone in sovrappeso sono un miliardo, mentre 800 milioni sono quelle che
soffrono la fame. Ogni anno le multinazionali del cibo mettono sul mercato
15-20 mila nuovi prodotti alimentari, ma nei paesi in via di sviluppo è in
corso un’epidemia di suicidi tra gli agricoltori che vanno in rovina per via
dei mercati globali.”Per ogni dollaro speso per promuovere alimenti naturali si
spendono 500 dollari per pubblicizzare junk food”, spiega Patel. Ma chi è
Patel? E perché è diventato famoso? La risposta (minimalista) è: è un sociologo
che si occupa del cibo, globalizzato e non, che mangiamo. Ed è egli stesso un
prodotto della globalizzazione.Sua madre viene da una famiglia di impiegati pubblici
del Kenya, suo padre dalle miniere delle isole Fiji. Lui è nato a Londra, ha
studiato a Oxford, ha lavorato alla Banca mondiale e al Fondo monetario di
Washington, esperienza che lo ha trasformato in uno dei più agguerriti critici
delle due organizzazioni. Un uomo che conosce l’universo mondo, compresi i
sapori e i profumi di quel che si mangia.Oggi Patel insegna a Berkeley, in
California, e il libro che ha pubblicato, ‘Stuffed & Starved’ (rimpinzati e
affamati), in uscita in Italia da Feltrinelli con il titolo ‘I padroni del
cibo’, è un bestseller, ed è diventato un testo chiave, lodatissimo anche da
Naomi Klein, per tutti quelli che indagano su che cosa sta succedendo al cibo
che mangiamo. O meglio, per tutti coloro che sono convinti che è il cibo la
chiave del potere (economico, culturale, politico) nel XXI secolo.
L’INTUIZIONE CHE HA PORTATO PATEL A
UN TALE SUCCESSO E’
SEMPLICE.Il
peccato capitale della nostra economia è avere dimenticato che il cibo non è
una merce come le altre . Il cibo è prima di tutto cultura, e lo è per diverse
ragioni tutte ugualmente importanti: perché al cibo sono legate tradizioni
culinarie antiche, sapori e odori che fanno parte del sentire collettivo,
dell’identità e della geografia stessa, ma anche perché l’agricoltura è il
necessario complemento di questa tradizione e rappresenta il motore
fondamentale delle economie regionali, specie nei paesi poveri.Già il movimento
dei no global, di cui Patel fa parte, fino dagli esordi, aveva provato a
lanciare questa operazione culturale alla fine degli anni Novanta. Quel
movimento, in Occidente, è stato spazzato via dall’11 settembre, dopo una
fiammata tra il 1999 e il 2001, da Seattle a Genova. Ma quelle idee hanno
continuato a scavare, e in questi ultimi anni la discussione sul ruolo del cibo
ha assunto importanza centrale.E non si tratta solo di militanti. Per capire il
ruolo che il cibo, dalla sua produzione e fino al nostro modo di stare a
tavola, ha assunto nel nostro immaginario, basti citare alcuni film di questi
anni: da ‘Supersize Me’, denuncia del fast food di Morgan Spurlock, a ‘Sideways’
di Alexander Payne in cui fare e gustare lentamente il vino è associato
all’idea dell’amicizia, a ‘Couscus’ di Abdel Kechiche dove l’ottima cucina
rende possibile l’integrazione di una famiglia di immigrati in una cittadina
francese in crisi.
E
POI CI SONO I LIBRI DENUNCIA.Nel 2001 fece scandalo Eric Schlosser con il suo
‘The Fast Food Nation’, che metteva a nudo le miserie delle grandi catene di
ristorazione americane. Poi Paul Roberts, con ‘The End of Food’, ha svolto
un’inchiesta sulla fragilità della catena produttiva che porta cibo scadente
sulle nostre tavole. Michael Pollan (’In Defence of Food: An Eater Manifesto’)
si è scagliato contro una cultura alimentare più attenta alla chimica che alla
qualità. E Taras Grescoe, in ‘BottomFeeder’, ha raccontato la crisi ecologica
del pesce negli oceani.La novità è che Patel mette insieme tutti i pezzi di
questo mosaico in una visione unitaria che comprende gli affamati del Terzo
mondo e gli obesi di casa nostra, cercando di capire che cosa è andato storto
in un mondo in cui la tecnologia potrebbe consentire a tutti di mangiare
decentemente e di mantenere la propria identitàl libro di Patel è stato al
centro dell’attenzione anche perché ha previsto con anticipo l’aumento dei
prezzi degli alimenti dell’inverno scorso. Quell’evento ha indotto molti
economisti a ripescare le previsioni catastrofiste di Thomas Malthus sulla
possibilità che la produzione di cibo non fosse in grado di tenere il passo
della crescita demografica. Malthus scrisse il ‘Saggio sul principio della
popolazione’ 210 anni fa e nel frattempo tutti hanno pensato che quel suo testo
fosse stato superato dall’innovazione tecnologica e dalla rivoluzione dei
trasporti. E invece, all’inizio del XXI secolo, eccolo tornare alla ribalta
come il tema centrale dell’umanità. Patel ci rassicura: Malthus aveva torto. Il
cibo non manca, a soffrire di fame sono i poveri che non possono procurarselo,
dice, ma per affrontare la questione della miseria bisogna incoraggiare i
governi a difendere l’agricoltura anziché obbligarli a distruggerla. Per farlo
basterebbe invertire le priorità: capire che il libero mercato dei
prodotti alimentari è “una menzogna che ci viene venduta per ragioni
propagandistiche”.
IN
REALTA’ NEGLI STATI UNITI E IN EUROPA.Le grandi aziende agricole hanno accesso
a enormi sussidi da parte dello Stato. Così, quando la Banca mondiale e la
World trade organization obbligano i Paesi poveri a liberalizzare i loro
mercati, intere culture e modi di vita vengono spazzati via. A maggio Patel,
nel corso di un’audizione al Congresso Usa, ha definito lapolitica della Banca
mondiale “ignominiosa”. E ha ricordato il caso del Ghana, dove negli anni ‘90
la produzione di riso copriva l’80 per cento dei consumi interni e quella di
pollame il 95 per cento. Dopo la liberalizzazione imposta dalla Banca mondiale
le produzioni locali sono crollate rispettivamente al 20 e all’11 per cento.E
qui si arriva all’altro corno del dilemma: se ci sono tanti affamati, come mai
ci sono anche tanti obesi? Semplice, perché la politica che porta una parte del
mondo alla fame è nata nell’unico paese dell’universo, gli Usa, che non ha una
tradizione alimentare e considera un’assurdità passare troppo tempo a tavola.
SI
E’ INSOMMA OBESI PER MANCANZA DI CULTURA.Di identità, perché si ignorano quei
gusti che altrove sono l’espressione del territorio e della geografia. Oltre un
terzo degli americani non ha la più pallida idea della provenienza di ciò che
mangia. Il 20 per cento delle decine di milioni che ogni giorno si nutrono di
fast food lo consumano in automobile. Quella cultura ha fatto proseliti e nel
mondo la grande M della McDonald’s è oggi un simbolo più conosciuto della croce
cristiana.Fame e obesità sono due fenomeni contigui e persino negli Stati Uniti
questa prossimità è evidente. Qui ci sono 35 milioni di persone che talvolta
nel corso dell’anno non hanno i soldi per comprarsi da mangiare. Ma in
maggioranza sono obese, perché quando hanno i soldi si nutrono di alimenti di
scarsa qualità: “E questo accade perché sono subornati da una cultura
alimentare che incoraggia a mangiare cibo dannoso, che provoca diabete e
malattie cardiache”. Le quattro maggiori multinazionali dell’alimentazione
controllano il 50 per cento del mercato alimentare. La sola Unilever controlla
il 90 per cento del mercato mondiale del tè.Patel ricompone in un’unica logica
le battaglie diVandana Shiva, la militante indiana che non vuole cedere alle
multinazionali la sovranità sulle sementi, e quelle di Carlo Petrini, il
fondatore dello Slow Food che invoca il controllo delle comunità locali sulla
qualità del cibo. Sono passati 20 anni da quando il Nobel Amartya Sen pubblicò
il suo memorabile saggio su ‘Libertà e cibo’, sostenendo, contro i liberisti
alla Milton Friedman, che la possibilità di procurarsi alimenti decenti va
considerata una delle libertà fondamentali dell’uomo. Allora Sen parlava del
Terzo mondo. All’inizio del nostro secolo la battaglia economica e culturale
per il cibo ci riguarda tutti.
Redatto da Pjmanc http:/ilfattaccio
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