giovedì 29 maggio 2014

ACQUA: TARIFFE PIÙ BASSE D’EUROPA E RECORD DI ACQUA MINERALE, ACQUEDOTTI COLABRODO E DEPURATORI CARENTI

Le perdite di rete sono pari al 32%. Siamo secondi al mondo per consumo di acqua in bottiglia (234 euro all'anno per famiglia). E gli investimenti? 30 euro per abitante contro i 100 euro del Regno Unito

Le tariffe più basse d'Europa: 85 centesimi al giorno per famiglia. Le tariffe italiane per il servizio idrico sono le più basse d'Europa. In media una famiglia di tre persone con un consumo annuo di 180 metri cubi spende 307 euro all'anno, 25,6 euro al mese: quanto il costo di una tazzina di caffè al bar al giorno (85 centesimi). Si tratta dello 0,9% della spesa media mensile di una famiglia. Per lo stesso servizio in Spagna si spendono 330 euro all'anno, in Francia 700 euro, in Austria, Germania e Regno Unito 770 euro. Dei 307 euro italiani, solo 143 euro riguardano il servizio di acquedotto. Il resto serve per pagare fognature e depurazione. Quindi, per avere acqua potabile in casa, una famiglia italiana spende circa 40 centesimi al giorno. Tutto questo non ha impedito, tuttavia, la sedimentazione nel tempo di tassi di morosità molto più elevati di quelli di energia elettrica e gas: 3,8 miliardi di euro di crediti scaduti, di cui 1,1 miliardi da oltre 24 mesi.

Ma si spendono 234 euro all'anno per l'acqua minerale. Allo stesso tempo siamo il Paese europeo con il più elevato consumo pro-capite di acqua in bottiglia, e addirittura il secondo al mondo. Il 61,8% delle famiglie italiane acquista acqua minerale e il consumo medio è pari a 192 litri all'anno per persona. In media ogni famiglia italiana spende 234 euro all'anno per l'acqua in bottiglia. Del resto, il 31,2% della popolazione non si fida dell'acqua che esce dal rubinetto della propria abitazione: una percentuale che sale nettamente al Sud (si arriva al 60,4% in Sicilia), ma che aumenta ovunque nel caso di allarmi connessi alla potabilità (si pensi ai casi di acqua contenente arsenico).

Infrastrutture carenti: si spreca il 31,9% dell'acqua. Siamo un Paese ricco di acqua, ma ne sprechiamo quantità enormi. Le nostre infrastrutture idriche sono carenti, obsolete e inadeguate. Le perdite di rete sono pari al 31,9% e ciò costringe ad aumentare il prelievo di acqua alla fonte impoverendo la risorsa ed esponendo alcuni territori a cronici disservizi: l'8,9% della popolazione italiana denuncia interruzioni di erogazione, con punte del 29,2% in Calabria. Anche in questo caso il confronto con i partner europei è impietoso: in Germania le perdite di rete sono pari al 6,5%, in Inghilterra e Galles al 15,5%, in Francia al 20,9%.

I rischi per la salute e l'ambiente. Il 20% delle acque reflue viene smaltito senza essere depurato, finendo per inquinare mari, fiumi e laghi del Belpaese. Proprio per la mancata depurazione delle acque reflue abbiamo già avuto due condanne in sede europea. Una quota consistente di popolazione (il 15%, con punte del 22% nel Mezzogiorno) non è allacciata ad alcuna rete fognaria e il 30% non è collegato a un impianto di depurazione. Anche nei Comuni capoluogo il 10% della popolazione non è servito da depuratore. Rischiamo di pagare multe salate per il mancato adeguamento degli scarichi dei nostri agglomerati urbani, ma soprattutto sono a rischio la salute dei cittadini, l'ambiente e l'economia turistica.

Un sistema di gestione frammentato. A vent'anni dalla riforma che ha introdotto il Servizio idrico integrato (legge Galli del 1994), la gestione dell'acqua rimane caratterizzata da contraddizioni e paradossi che solo oggi, con l'affidamento del compito di regolazione all'Autorità per l'energia elettrica e il gas, possono entrare nell'agenda delle priorità del Paese e si possono cominciare ad affrontare. Il servizio idrico in Italia fa capo a una platea eterogenea di soggetti gestori. Sono più di 300, con una grande variabilità di dimensioni e natura giuridica. Si va dal gestore di un solo Comune di 500 abitanti all'Acquedotto Pugliese (100% di proprietà della Regione) che serve 4 milioni di abitanti. L'11% dei Comuni se ne occupa direttamente «in economia» e non tramite un gestore vero e proprio. Un ulteriore 19% degli enti locali ha una gestione «salvaguardata» risalente a prima della legge Galli. Mancano big player industriali capaci di andare anche sui mercati esteri, come fanno le grandi aziende francesi. Da noi la presenza dell'impresa privata nella gestione dei servizi idrici, assoluta protagonista nel Regno Unito e maggioritaria in Francia e Spagna, è confinata a un ruolo marginale.

Investimenti: solo il 30% di quanto spende il Regno Unito. Per recuperare il terreno perduto, rimettendo a posto acquedotti colabrodo e realizzando reti fognarie e impianti di depurazione delle acque reflue adeguati, servono investimenti rilevanti. Anche da questo punto di vista il confronto con l'Europa è preoccupante. In Italia si investe ogni anno l'equivalente di 30 euro per abitante, in Germania 80 euro, in Francia 90 euro, nel Regno Unito 100 euro. Si stima che, per riportare il livello delle infrastrutture idriche italiane in linea con gli standard europei, bisognerebbe investire 65 miliardi di euro in trent'anni: una cifra ingente, equivalente ad esempio a oltre 7 volte il costo della tratta internazionale della linea ferroviaria Torino-Lione tra Francia e Italia.


Fonte: CENSIS

mercoledì 21 maggio 2014

I DISABILI, I PIÙ DISEGUALI NELLA CRESCITA DELLE DISEGUAGLIANZE SOCIALI

Le persone disabili saranno 4,8 milioni nel 2020. Dopo la scuola, destinate all'invisibilità. Ha un lavoro solo il 31,4% delle persone Down con più di 24 anni, appena il 10% degli autistici over 20. E in Italia la spesa pubblica (437 euro pro-capite all'anno) è molto inferiore a quella media europea (535 euro)


Aumentano di numero, ma sotto traccia, senza un'immagine e un'identità precisa. Il Censis stima, facendo riferimento alla percezione soggettiva, una percentuale di persone con disabilità pari al 6,7% della popolazione totale, cioè complessivamente 4,1 milioni di persone. Nel 2020 arriveranno a 4,8 milioni (il 7,9% della popolazione) e raggiungeranno i 6,7 milioni nel 2040 (il 10,7%). Eppure l'universo delle disabilità non riesce a uscire dal cono d'ombra in cui si trova, non solo nelle statistiche pubbliche (i dati ufficiali dell'Istat sono fermi al 2005), ma anche nell'immaginario collettivo e nel linguaggio comune. Un italiano su 4 afferma che non gli è mai capitato di avere a che fare con persone disabili. E la disabilità è percepita da 2 italiani su 3 essenzialmente come limitazione dei movimenti, mentre in realtà la disabilità intellettiva è più diffusa in età evolutiva e rappresenta l'aspetto più misconosciuto, al limite della rimozione.

Anche i disabili crescono. Quando poi avanzano nell'età, le persone con disabilità intellettiva sono ancora più invisibili. Oggi in Italia le persone con sindrome di Down sono circa 48.000, di cui solo il 21% ha fino a 14 anni. La fascia d'età più ampia è quella da 15 a 44 anni, pari al 66%, e il 13% ha più di 44 anni. L'aspettativa di vita alla nascita è di 61,6 anni per i maschi e di 57,8 anni per le femmine. Le persone affette da disturbi dello spettro autistico si stimano pari all'1% della popolazione, circa 500.000.

I disabili minori, ovvero l'inclusione incompiuta. Il modello di risposta alla disabilità del nostro welfare si basa in modo informale sulla famiglia, che non solo diventa il soggetto centrale della cura, ma spesso viene anche coinvolta nello stesso percorso di marginalità e isolamento che tende ad accentuarsi quando le persone disabili crescono. Fino alla minore età, le famiglie possono contare su uno dei pochi, se non l'unico, punto di forza della risposta istituzionale alla disabilità, cioè l'inclusione scolastica, che pur con tutti i suoi limiti e difficoltà rappresenta un'importante occasione di inclusione sociale. Il numero di alunni disabili nella scuola statale è cresciuto dai 202.314 dell'anno scolastico 2012/2013 ai 209.814 del 2013/2014 (+3,7%).
Contemporaneamente è aumentato il numero dei docenti di sostegno: dai 101.301 del 2012/2013 ai 110.216 del 2013/2014 (+8,8%). Secondo un'indagine del Censis, i bambini Down in età prescolare che frequentano il nido o la scuola dell'infanzia sono l'82,1%, tra i 7 e i 14 anni l'inclusione scolastica raggiunge il 97,4%, ma già tra i 15 e i 24 anni la percentuale scende a poco meno della metà, anche se l'11,2% prosegue il percorso formativo a livello professionale. Tra i ragazzi affetti da disturbi dello spettro autistico, fino a 19 anni è il 93,4% a frequentare la scuola, ma il dato scende al 67,1% tra i 14 e i 20 anni, e arriva al 6,7% tra chi ha più di 20 anni.

Dopo la scuola: tutti a casa. Il destino dei ragazzi ormai grandi che escono dal sistema scolastico è sintetizzabile con una parola: dissolvenza. Oltre l'età scolastica, gli adulti Down e autistici scompaiono nelle loro case, con ridottissime opportunità di inserimento sociale e di esercizio del loro diritto alle pari opportunità. Nel mondo del lavoro l'inclusione è pressoché inesistente. Ha un lavoro solo il 31,4% delle persone Down over 24 anni. E la maggioranza di quelli che lavorano (oltre il 60%) non è comunque inquadrata con contratti di lavoro standard. Nella maggior parte dei casi lavorano in cooperative sociali, spesso senza un vero e proprio contratto. In oltre il 70% dei casi non ricevono nessun compenso o ne percepiscono uno minimo, comunque inferiore alla normale retribuzione per il lavoro che svolgono. Ancora più grave è la situazione per le persone autistiche: a lavorare è solo il 10% degli over 20.

La delega alla famiglia: dalle istituzioni soprattutto soldi, ma meno che nel resto d'Europa (e meno del 6% in servizi). I disabili adulti rimangono in carico alla responsabilità delle loro famiglie, con sostegni istituzionali limitati, focalizzati quasi esclusivamente sul supporto economico. Anche in questo caso, però, dal confronto con gli altri Paesi europei emerge che la spesa per le prestazioni di protezione sociale per la disabilità, cash e in natura, è pari a 437 euro pro-capite all'anno, superiore solo al dato della Spagna (404 euro) e molto inferiore alla media europea di 535 euro (il 18,3% in meno). Colpisce quanto poco sviluppata sia la spesa per i servizi in natura, che rappresenta solo il 5,8% del totale, cioè 25 euro pro-capite annui, meno di un quinto della media europea e inferiore anche al dato della Spagna. Le opportunità di accesso ai servizi si riducono per i disabili adulti. Tra le persone Down di 25 anni e oltre, il 32,9% frequenta un centro diurno, ma il 24,3% non fa nulla, sta a casa. Tra le persone con autismo dai 21 anni in su, il 50% frequenta un centro diurno, ma il 21,7% non svolge nessuna attività. Tra le ore dedicate all'assistenza diretta e quelle di semplice sorveglianza, i genitori delle persone autistiche e delle persone Down spendono complessivamente 17 ore al giorno. La valorizzazione economica di questo tempo (equiparando le ore di assistenza a quelle retribuite con il minimo tabellare di un assistente sanitario e quelle di sorveglianza al compenso di un collaboratore domestico) arriva a una cifra annua davvero consistente: circa 44.000 euro per famiglia nel caso delle persone Down e circa 51.000 euro per le persone affette da disturbi dello spettro autistico. La portata dell'impegno familiare nella gestione assistenziale delle disabilità emerge con crudezza da questi dati, soprattutto se si pensa al valore contenuto del Fondo per la non autosufficienza da poco rifinanziato, che ammonta per il 2014 a soli 340 milioni di euro ripartititi tra le Regioni per sviluppare i servizi integrati socio-assistenziali e sanitari e la domiciliarità.

Il «dopo di noi»: quale futuro senza le famiglie? Nel tempo aumenta il senso di abbandono delle famiglie e cresce la quota di quelle che lamentano di non poter contare sull'aiuto di nessuno pensando alla prospettiva di vita futura dei propri figli disabili. Mentre tra i genitori di bambini e ragazzi Down fino a 15 anni la quota di genitori che pensa a un «dopo di noi» in cui il proprio figlio avrà una vita autonoma o semi-autonoma varia tra il 30% e il 40%, tra i genitori degli adulti la percentuale si riduce al 12%. La quota di genitori di bambini e adolescenti autistici che prospettano una situazione futura di autonomia anche parziale per i loro figli (23%) si riduce ancora più drasticamente (5%) tra le famiglie che hanno un figlio autistico di 21 anni e più.


Fonte: CENSIS

La casta di Bruxelles

"Lo svuotamento dell'attività parlamentare che i partiti cercano di realizzare in Italia contro la strenua opposizione del Movimento Cinque Stelle, in Europa esiste già da tempo. Il Parlamento europeo, diciamolo pure, ha un significato ornamentale rispetto alla Commissione e al Consiglio. E nel nostro paese è servito più che altro a parcheggiare politici italiani trombati o figure dello spettacolo o dello sport acchiappa voti, più qualche intellettuale "indipendente" ben ammanigliato nelle segreterie dei partiti. Se si trattasse di rimborsare qualche viaggetto a Bruxelles e qualche Hotel di lusso dotato di escort, i costi potrebbero essere contenuti (anche se non giustificati). Il fatto però è che il Parlamento europeo ci costa più di quanto si possa pensare.
Il Parlamento Europeo è l’unica istituzione democraticamente eletta del mondo ad avere una sede in tre diverse città: Bruxelles, Strasburgo e, per quel che riguarda gli uffici amministrativi (il "Segretariato generale"), Lussemburgo. Il Parlamento ha a disposizione complessivamente 27 edifici: 14 sono di sua proprietà e 13 sono in affitto - ad esempio, in Lussemburgo, il Parlamento affitta 5 delle sei sedi al prezzo di quasi 40 milioni di euro l'anno. Nel 2006 il Parlamento europeo ha dato il via libera alla costruzione di un nuovo edificio a Lussemburgo (di 160.000 m2) per 3 000 impiegati. Costo stimato: 416 milioni di euro.
Avere lo staff amministrativo in Lussemburgo quando il cuore politico delle decisioni vengono prese a Bruxelles e Strasburgo pesano sulle tasche dei contribuenti per una cifra che è stata stimata da Lidia Geringer de Oedenberg, questore del Parlamento europeo, in un rapporto del 2012, in cui si evidenziava come ogni settimana ci sono centinaia di dirigenti che da Bruxelles devono fare la spola con il Lussemburgo. Ci sono in media, ogni anno, oltre 33.200 missioni ufficiali dello staff del Parlamento europeo nelle tre sedi, per una spesa complessiva di 29,1 milioni di euro. Circa il 30% di queste missioni (9 500 complessive) riguardano i collaboratori di parlamentari che fanno la spola tra Lussemburgo e Bruxelles. Il costo complessivo è di 2 milioni di euro (inclusi viaggio, pernottamenti e diarie varie). Nella "spola" si ha diritto ad un rimborso di 65 euro per i costi di viaggio, 140 euro per le spese di pernottamento e a una diaria giornaliera di 92 euro. Moltiplicate questi dati per il numero delle missioni ufficiali annuali e comprendete la follia e l'idiozia della sede in Lussemburgo.
Ma vi è di più. I dirigenti e lo staff si spostano da Bruxelles in Lussemburgo, ma i parlamentari si devono trasferire da Bruxelles a Strasburgo una volta al mese, come previsto dai Trattati. Per spostare i lavori parlamentari a Strasburgo entra in scena quello che è stato correttamente definito il "circo degli eurocrati": circa 5.000 persone fra deputati, assistenti e personale amministrativo - con un’emissione annuale di CO2 che supera le 19.000 tonnellate per gli spostamenti - compiono i 435 chilometri di distanza in aereo, macchina o treno (quest'ultimo è stato ribattezzato dalla stampa britannica come l'"Eurocrat Express") per restare 72 ore a Strasburgo - due giorni lavorativi – intascare le laute diarie per le trasferte, pernottare nei migliori alberghi della città e cenare nei ristoranti più cari. Poi, come nelle migliori sceneggiature di Mel Brooks, tutta la carovana ritorna a Bruxelles, seguiti da 8 tir carichi di faldoni e carte amministrative! Se non fossero soldi di tutti noi contribuenti europei, ci sarebbe da ridere per ore ad immaginare la scena di questa ridicola processione di tecnocrati. 
Ma le cifre ci riportano alla realtà. Secondo alcune stime elencate nel rapporto Fox-Hafner dello scorso 20 novembre presentato al Parlamento europeo, i costi annuali del "circo" sono compresi fra i 156 e i 204 milioni di euro, circa il 10% del bilancio annuale del Parlamento europeo. E il tutto per mantenere in piede una sede, quella di Strasburgo, che resta completamente vuota 320 giorni l'anno. La disfunzionalità dell'Unione Europea è tale che ogni iniziativa per eliminare questo ridicolo spreco di denaro pubblico viene bloccato dal veto della Francia che non vuole privarsi dei 20 milioni di euro che il "circo" porta nelle casse di Strasburgo.
Ogni deputato europeo, tra stipendio base, diarie, bonus, indennità giornaliere e di trasferta a fine mandato, costa al contribuente europeo un milione e 69 mila euro a legislatura. Per non parlare dei casi estremi, certificati dal giornalista Tom Staal di Open Europe, di europarlamentari – tra cui il ceco Miroslav Randsford e l'italiano Raffaele Baldassare – "pizzicati" ad entrare in Parlamento per un minuto solamente, il tempo di firmare la presenza che comporta la diaria giornaliera da 300 euro e poi dedicarsi ad altro. E per non parlare del caso della cosiddetta “indennità transitoria” o “incentivo al reinserimento lavorativo”, in altre parole la buonauscita per i parlamentari europei che non siederanno nella legislatura successiva. Una cifra che può raggiungere i 159 mila euro per Ciriaco De Mita, che è nella lista tra gli assenteisti cronici rispetto ai lavori parlamentari, e i 103 mila euro per Mario Borghezio.
Il Telegraph, citando l'EU Official Journal and European Parliament’s Budget, ha aggiunto proprio questa settimana un nuovo capitolo alla telenevola "sprechi del Parlamento europeo". Il capitolo delle 160 missioni "d'inchiesta" svolte negli ultimi due anni, con un costo per i contribuenti di quasi 10 milioni di euro (8.15 milioni di sterline). Le mete preferite dei burocrati di Bruxelles? Cipro al primo posto – con addirittura 12 missioni di delegazioni di Parlamentari nel 2012 - poi Africa, Caraibi e paesi del Pacifico. I dati, prosegue il giornale inglese, del solo 2012 mostrano come ci siano stati 94 viaggi di delegazioni al costo di 4,7 milioni di euro, incluso una missione di tre giorni nel gennaio 2012 a Santiago del Cile di Eurolat, per la modica cifra di 420,868 euro, con una delegazione di 41 parlamentari, 25 persone dello staff e 20 interpreti. Nel diario di bordo di alcune delle missioni, prosegue ironicamente il Telegraph, non emergono estenuanti giornate lavorative, tutt'altro: ad esempio, nel giugno del 2012, la Commissione cultura ha visitato Guimaraes in Portogallo e gli otto euro-deputati hanno trovato il tempo per visitare le attrazioni culturali, mangiare nei ristoranti più costosi e seguire anche i concerti che offriva la città. Alcuni eurodeputati non nascondono di scegliere di partecipare alle missioni per piacere personale e per poter vedere il maggior numero di posti al mondo. E così, nel febbraio del 2014, 15 eurodeputati della delegazione ACP è partita in missione per le Mauritius con 11 interpreti e sei dello staff. Il costo non è ancora stato divulgato e probabilmente si attenderà il 26 maggio...
L'autorevole quotidiano economico tedesco Handelsblatt riporta proprio oggi come il presidente del Parlamento europeo e candidato alla presidenza della prossima Commissione per il partito Socialista europeo, Martin Schulz, ha negli anni usufruito di una serie di indennità speciali da aggiungere ad i 200 mila euro annui tax free del suo stipendio. Il regime di indennità – che risale al 1991 e che non viene visionato dalla Commissione di controllo del Budget del Parlamento europeo – include, riporta Handelsblatt, un'indennità di 304 euro per ogni giorno dell'anno, non importa se il Parlamento sia in sessione o meno; un'"indennità di residenza" di 3.700 euro mensile e "un'indennità di rappresentanza" da 1,418 euro ogni mese dell'anno. Fate la somma e cosa aggiungere di altro?
Il 21% del budget del Parlamento europeo – 357 milioni di euro l'anno - viene poi impiegato nella sezione "comunicazione e tecnologia": per la maggior parte si tratta di costi di traduzione per produrre 24 copie di ogni atto, tante sono le lingue ufficiali di riferimento, oltre al sistema computerizzato interno ed esterno; ed una rete TV che permette ai parlamentari e al loro staff di seguire le discussioni delle commissioni e della seduta plenaria stando nel loro ufficio. Ma, in questa sezione, vanno aggiunti quest'anno, proprio in vista delle elezioni europee, i quasi due milioni di euro stanziati per propaganda. A usare il termine "propaganda" è il Daily Telegraph che ha citato un rapporto confidenziale del Parlamento europeo in cui emerge come la nuova strategia in vista del 25 maggio si basa sugli strumenti di monitoraggio nei social media e nei blog per comprendere gli interessi dei cittadini. Si legge nel documento come i comunicatori istituzionali del Parlamento devono avere l'abilità di monitorare le conversazioni pubbliche per comprendere i 'trending topics' e avere la capacità di reagire velocemente, in un modo rilevante e mirato, per unirsi e influenzare il dibattito. Questa operazione alla Goebbels, volta a legittimare i due partiti che fino ad oggi si sono spartiti il Parlamento europeo, ci costa due milioni di euro. 
Il budget del Parlamento europeo, 1,7 miliardi di euro, rappresenta comunque una piccola percentuale di quello complessivo dell'Unione europea, che è di 147 miliardi annuali. L'Ue costa all'Italia 5,5 miliardi di euro all’anno, cioè 15 milioni al giorno, 627.000 euro l’ora, 10.464 euro al minuto, o 174 euro al secondo. E gli sprechi del PE, in questo contesto, sono solo una piccola goccia di quelli totali, a cui dedicheremo una trattazione apposita futura. Entrando nel Parlamento italiano, il Movimento cinque stelle ha portato un'aria nuova, sconvolgendo il teatrino di due partiti, costretti a gettare quella maschera di finta opposizione che avevano indossato per vent'anni. Gli intrallazzi continui sono ora simboleggiati alla perfezione dalla recente tangentopoli delle larghe intese dell'Expo di Milano. 
Entrando nel Parlamento europeo a maggio, il Movimento troverà una situazione non dissimile: negli anni, infatti, la finta opposizione tra Ppe e Pse ha permesso il ripetersi dello scempio degli sprechi di soldi pubblici che vi abbiamo illustrato e dal 26 maggio saranno costretti dal voto popolare di dissenso a gettare la maschera anche loro per creare le "grandi intese europee". Se oggi il Parlamento europeo è un "simulacro" di democrazia e una residenza dorata per politici trombati dei rispettivi paesi, la responsabilità principale è di tutti quei partiti che hanno aderito al PPE e al PSE. Partiti che in Grecia, Germania, Austria e Italia già governano insieme alla luce del sole. Ma, da fine maggio, la storia cambierà in Europa e cambierà inevitabilmente anche in Italia...
#vinciamonoi"

di Paolo Becchi

Fonte: Il blog di Beppe Grillo 

domenica 4 maggio 2014

CENSIS:CRESCONO LE DISEGUAGLIANZE SOCIALI, IL VERO MALE CHE CORRODE L’ITALIA

I 10 uomini più ricchi del Paese hanno un patrimonio pari a quello di 500mila famiglie operaie messe insieme. E il bonus di 80 euro? 3,1 miliardi destinati ai consumi se sarà permanente

Patrimoni sempre più squilibrati. I 10 uomini più ricchi d'Italia dispongono di un patrimonio di circa 75 miliardi di euro, pari a quello di quasi 500mila famiglie operaie messe insieme. Poco meno di 2mila italiani ricchissimi, membri del club mondiale degli ultraricchi, dispongono di un patrimonio complessivo superiore a 169 miliardi di euro (senza contare il valore degli immobili): cioè lo 0,003% della popolazione italiana possiede una ricchezza pari a quella del 4,5% della popolazione totale. Ecco plasticamente rappresentate le disuguaglianze di oggi in Italia. Le distanze nella ricchezza sono cresciute nel tempo. Oggi, in piena crisi, il patrimonio di un dirigente è pari a 5,6 volte quello di un operaio, mentre era pari a circa 3 volte vent'anni fa. Il patrimonio di un libero professionista è pari a 4,5 volte quello di un operaio (4 volte vent'anni fa). Quello di un imprenditore è pari a oltre 3 volte quello di un operaio (2,9 volte vent'anni fa).

Le diseguaglianze dei redditi: chi più aveva, più ha avuto. I redditi familiari hanno avuto negli ultimi anni una dinamica molto differenziata tra le diverse categorie sociali. Rispetto a dodici anni fa, i redditi familiari annui degli operai sono diminuiti, in termini reali, del 17,9%, quelli degli impiegati del 12%, quelli degli imprenditori del 3,7%, mentre i redditi dei dirigenti sono aumentati dell'1,5%. L'1% dei «top earner» (circa 414mila contribuenti italiani) si è diviso nel 2012 un reddito netto annuo di oltre 42 miliardi di euro, con redditi netti individuali che volano mediamente sopra i 102mila euro, mentre il valore medio dei redditi netti dichiarati dai contribuenti italiani non raggiunge i 15mila euro. E la quota di reddito finita ai «top earner» è rimasta sostanzialmente stabile anche nella fase crisi.

L'austerity non è per tutti. Negli anni della crisi (tra il 2006 e il 2012), i consumi familiari annui degli operai si sono ridotti, in termini reali, del 10,5%, quelli degli imprenditori del 5,9%, quelli degli impiegati del 4,5%, mentre i consumi dei dirigenti hanno registrato solo un -2,4%. Distanze già ampie che si allargano, dunque, compattezza sociale che si sfarina, e alla corsa verso il ceto medio tipica degli anni '80 e '90 si è sostituita oggi una fuga in direzioni opposte, con tanti che vanno giù e solo pochi che riescono a salire. In questa situazione è alto il rischio di un ritorno al conflitto sociale, piuttosto che alla cultura dello sviluppo come presupposto per un maggiore benessere.

Se potessi avere 80 euro al mese. Come impiegheranno il bonus Irpef di 80 euro al mese i 10 milioni di italiani che ne beneficeranno per i prossimi otto mesi, da maggio a dicembre? I comportamenti saranno molto diversi se l'introduzione del bonus sarà strutturale o se invece non avrà continuità nel tempo. Nel caso in cui gli 80 euro costituiranno un incremento una tantum del reddito, il Censis stima che 2,7 miliardi di euro (dei 6,7 miliardi totali previsti dal decreto del governo) andranno ad alimentare la domanda interna. Per la precisione, 2,2 milioni di beneficiari del provvedimento impiegheranno tutti gli 80 euro mensili in consumi, per una spesa pari a 1,5 miliardi di euro negli otto mesi. Altri 2,7 milioni di beneficiari li spenderanno solo in parte per consumi, per un valore di 1,2 miliardi di euro (e destineranno 700 milioni di euro ad altro). Invece, 5 milioni di beneficiari useranno il bonus esclusivamente per impieghi diversi dai consumi (risparmieranno, pagheranno debiti, ecc.), per un ammontare di 3,3 miliardi di euro. Nel caso in cui il bonus di 80 euro costituirà una modifica fiscale permanente, e quindi comporterà un incremento stabile e sicuro dei redditi dei beneficiari, il Censis stima che l'incremento della spesa per consumi nei prossimi otto mesi sarà superiore a 3,1 miliardi di euro, cioè circa il 15% in più rispetto al caso in cui il bonus non venga rinnovato nel prossimo anno. In questo caso sarebbero circa un milione in più le persone che destinerebbero tutti o in parte gli 80 euro ai consumi.

Le tante facce della diseguaglianza. Le iniquità sociali non riguardano solo patrimoni e redditi. Ci sono eventi della vita che sempre più generano diversità che diventano distanze sociali. Avere o non avere figli: ecco una causa di diseguaglianza. La nascita del primo figlio fa aumentare di poco, rispetto alle coppie senza figli, il rischio di finire in povertà. Nel primo caso il rischio riguarda l'11,6%, nel secondo caso riguarda il 13,1%. Ma la nascita del secondo figlio fa quasi raddoppiare il rischio di finire in povertà (20,6%) e la nascita del terzo figlio triplica questo rischio (32,3%). Inoltre, avere figli raddoppia il rischio di finire indebitati per mutuo, affitti, bollette o altro rispetto alle coppie senza figli: il rischio riguarda il 15,7% nel primo caso, il 6,2% nel secondo caso. Anche ritrovarsi a fare da solo/a il genitore aumenta di un terzo, rispetto alle coppie con figli, il rischio di finire in povertà e/o indebitati: 26,2% nel primo caso, 19,3% nel secondo.

Dimmi dove vivi e ti dirò quanta diseguaglianza c'è. Il rischio di finire in povertà è, per i residenti nel Sud (33,3%), triplo rispetto a quelli del Nord (10,7%) e doppio rispetto a quelli del Centro (15,5%). Nel Sud (18%) i residenti hanno anche un rischio quasi doppio di finire indebitati rispetto al Nord (10,4%) e di 5 punti percentuali più alto rispetto a quelli del Centro (13%).


Fonte: CENSIS