giovedì 30 giugno 2011

AGROMAFIE: UN GIRO DI AFFARI DI ALMENO 12,5 MILIARDI DI EURO

Il Rapporto Eurispes-Coldiretti stima che il volume d’affari complessivo dell’agromafia sia quantificabile in 12,5 miliardi di euro (5,6% del totale), di cui: 3,7 miliardi di euro da reinvestimenti in attività lecite (30% del totale) e 8,8 miliardi di euro da attività illecite (70% del totale).

Il reinvestimento dei proventi illeciti anche in tale settore, ha come corollario il condizionamento della libera iniziativa economica attraverso attività fraudolente (quale, ad esempio, l’indebita percezione dei finanziamenti nazionali e comunitari – si pensi che nel solo 2009 la Guardia di Finanza ha accertato l’indebita percezione di oltre 92 milioni di euro di finanziamenti per aiuti all’agricoltura), ovvero mediante l’attuazione di pratiche estorsive, imponendo l’assunzione di forza lavoro e, in taluni casi, costringendo gli operatori del settore ad approvvigionarsi dei mezzi di produzione da soggetti vicini alle organizzazioni criminali, influenzando poi i prezzi di vendita (attraverso la gestione delle fasi di distribuzione all’ingrosso e del trasporto dei prodotti agricoli). L’analisi dei risultati conseguiti dalle Forze di Polizia evidenzia come l’intero comparto agroalimentare sia caratterizzato da fenomeni criminali legati al contrabbando, alla contraffazione ed alla sofisticazione di prodotti alimentari ed agricoli e dei relativi marchi garantiti, ma anche dal fenomeno del “caporalato”, che comporta lo sfruttamento dei braccianti agricoli irregolari, con conseguente evasione fiscale e contributiva. I danni al sistema sociale ed economico sono pertanto molteplici, dal pericolo per la salute dei consumatori finali, all’alterazione del regolare andamento del mercato agroalimentare.

Nel caso specifico del settore agroalimentare italiano, secondo il Rapporto Eurispes-Coldiretti, il valore aggiunto complessivo (in media 52,2 miliardi di euro su base annua nel quinquennio 2005-2009) rappresenta per la criminalità un forte incentivo, sul piano della massimizzazione del profitto, all’investimento dei proventi delle attività illecite nei comparti dell’agricoltura, caccia e silvicoltura (valore aggiunto medio 26,2 miliardi di euro, 1,9% del Sistema Paese), dell’industria alimentare, delle bevande e del tabacco (valore aggiunto medio 24,6 miliardi di euro, 1,8% del Sistema Paese), della pesca, piscicoltura e servizi connessi (valore aggiunto medio 1,4 miliardi di euro, 0,1% del Sistema Paese); la minore appetibi-lità, in termini di profittabilità degli investimenti, del settore agroalimentare rispetto ad altri settori a più alto valore aggiunto (attività immobiliari, costruzioni, trasporti, sanità e assistenza sociale) è compensata dalla persistenza e, in taluni casi, dall’aggravarsi, di molteplici fattori di criticità (effetto moltiplicatore), quali: un calo del 15,9% del numero di occupati e del 35,8% del reddito reale agricolo per occupato tra il 2000 e il 2009; il crollo significativo e generalizzato dei prezzi alla produzione; l’assoluta prevalenza di imprese individuali (87,2% delle attive) rispetto a società di persone e di capitali (rispettivamente 8,9% e 2,4% delle attive); l’elevata diffusione di piccole e medie imprese, spesso a conduzione familiare, e del fenomeno del sommerso.

Criminalità organizzata: una vera e propria holding finanziaria. La criminalità organizzata è riuscita nel tempo a consolidare e, in taluni casi, rafforzare il proprio status di grande holding finanziaria, in grado di operare, seppur in misura differente, sull’intero territorio nazionale e nella quasi totalità dei settori economici e finanziari del Sistema Paese, con un giro d’affari complessivo stimato dall’Eurispes in circa 220 miliardi di euro l’anno (l’11% del Pil).

Contestualmente alle attività criminose, la criminalità organizzata ha, infatti, sviluppato una crescente capacità di infiltrazione nel tessuto imprenditoriale italiano, avvalendosi di quest’ultimo quale luogo privilegiato di riciclaggio del denaro proveniente dalle attività illecite.

Tale vocazione “imprenditoriale”, che trova terreno ancora più fertile nell’attuale quadro congiunturale di grave e generalizzata crisi economica (in ragione delle ingenti risorse finanziarie di cui dispone), si manifesta seguendo i principî e le regole proprie della finanza, in primis quello della diversificazione del rischio e del portafoglio degli investimenti. Prefigurandosi quale obiettivo prioritario la massimizzazione dei profitti (ovvero del ritorno economico degli investimenti), la holding del crimine organizzato tende, inoltre, a privilegiare i settori e comparti economici in grado di generare un più alto valore aggiunto, quali: le attività immobiliari, il commercio (all’ingrosso e al dettaglio); i trasporti, il magazzinaggio e le comunicazioni; le costruzioni; la sanità e l’assistenza sociale. Esiste, tuttavia, un terzo aspetto che assume particolare rilevanza ai fini della composizione del portafoglio della holding, in grado di generare un effetto moltiplicatore sulla propensione all’investimento (in specifici contesti territoriali e comparti economici) fondata sulle sole esigenze di diversificazione e massimizzazione dei profitti. In particolare, la possibilità che le risorse di cui dispone la criminalità organizzata subentrino a quelle provenienti dai canali ufficiali (istituzioni pubbliche e sistema bancario) e, conseguentemente, il livello di penetrazione mafiosa in uno specifico settore economico crescono al manifestarsi di circostanze quali: una grave crisi economica (calo del fatturato, degli ordinativi, dell’occupazione e degli investimenti); un eccessivo squilibrio tra domanda e offerta di finanziamenti; un tessuto imprenditoriale caratterizzato dalla prevalenza di piccole e medie imprese (più esposte al rischio di usura, racket ed estorsioni a causa delle maggiori difficoltà di accesso al sistema creditizio); una maggiore diffusione dell’economia sommersa. I tre diversi aspetti (diversificazione del rischio, massimizzazione del profitto, effetto moltiplicatore) influenzano le scelte di investimento della criminalità organizzata in maniera profondamente diversa, integrandosi o compensandosi tra loro a seconda del contesto economico e territoriale.

Agromafie: i tentacoli nella terra

Le associazioni mafiose tendono a potenziare la loro azione di infiltrazione e di penetrazione nel mondo imprenditoriale e nell’economia legale, dimostrando una particolare capacità di modernizzazione e di visione dello sviluppo tecnologico e delle trasformazioni economiche.

In agricoltura, i principali reati che vengono attribuiti alle associazioni mafiose vanno dai comuni furti di attrezzature e mezzi agricoli all’abigeato, dalle macellazioni clandestine al danneggiamento delle colture, dall’usura al racket estorsivo, dall’abusivismo edilizio al saccheggio del patrimonio boschivo, per finire al caporalato e alle truffe, consumate, a danno dell’Unione europea.

Le agromafie insistono soprattutto nei territori meridionali a produrre le loro attività illecite, ricercando un forte alimento nelle difficoltà in cui si trovano le imprese agricole sempre più esposte agli effetti devastanti della scarsa disponibilità di soddisfacenti risorse finanziarie. Così accade che le possibilità di investimento nelle campagne decrescono miseramente e nello stesso tempo l’accesso al credito bancario risulta essere difficoltoso anche per il costo molto elevato del denaro. Il bisogno di credito immediato spinge inevitabilmente gli imprenditori agricoli a trovare nuove forme di finanziamento: l’usura e il racket sono, come è noto, le attività illecite da sempre controllate dalle cosche mafiose.

Inoltre, come denunciato dalla Coldiretti, le associazioni criminali, attraverso le suddette pratiche estorsive, finiscono per determinare l’aumento dei prezzi dei beni al consumo. Così la mafia riconsolida il proprio ruolo di industria della protezione-estorsione che l’aveva caratterizzata, fin dalle origini, assumendo di fatto il controllo politico ed economico dell’impresa e dell’imprenditore.

Non solo, ma intervenendo nel meccanismo di formazione dei prezzi, si pone come soggetto autorevole di intermediazione tra i luoghi della produzione e il consumo, assumendo l’identità di un centro autonomo di potere. L’azienda “Mafia” attraverso il sistema di imprese affiliate o collegate è in grado, come sottolineato dalla Direzione Investigativa Antimafia, di condizionare e di controllare l’intera filiera agroalimentare, «dalla produzione agricola all’arrivo della merce nei porti, dai mercati all’ingrosso alla Grande Distribuzione, dal confezionamento alla commercializzazione». Di fatto, la progressiva diffusione delle agromafie si traduce in una perdita di sicurezza sociale del cittadino e di un impoverimento dell’economia dei territori. In tempi di globalizzazione economica e di speculazioni finanziarie, le mafie hanno profondamente mutato le strategie economico-finanziarie di penetrazione e di arricchimento illecito: attraverso i processi di integrazione monetaria e gli strumenti forniti dall’innovazione tecnologica hanno reso più difficilmente ricostruibili i flussi finanziari di conversione del denaro illecito, utilizzando anche la “moneta telematica” insieme ai tradizionali luoghi del riciclaggio.

Le agromafie investono i loro ricchi proventi in larga parte in attività agricole, nel settore commerciale e nella grande distribuzione.

Un altro filone in cui l’agrocrimine si manifesta è quello della contraffazione dei marchi e degli imballaggi di vendita dei prodotti agricoli. Secondo la Coldiretti: «La diffusività e l’entità del fenomeno del falso Made in Italy ed il volume di affari connesso a condotte illegali o a pratiche commerciali improprie nel settore agroalimentare sono, ormai, di tale rilievo da poter a ragione parlare dello sviluppo di vere e proprie Agromafie, la cui crescita ed espansione appaiono supportate dall’inadeguatezza del sistema dei controlli e della comunicazione dei dati e dalle informazioni, sia con riferimento alla fase dell’importazione dei prodotti agroalimentari, sia con riferimento alle successive operazioni di trasformazione, distribuzione e vendita» .

La mafia agricola non si allontana dalla terra di origine e ne controlla ogni sua parte, ogni singolo accadimento viene sentito, intercettato e fatto proprio. La ’Ndrangheta, pur manifestando la continua volontà di espansione sull’intero territorio nazionale (e non solo), non abbandona mai il controllo sociale ed economico del territorio calabrese, in particolare rivendica il proprio dominio sulle attività agricole e sulla pastorizia, e allo stesso tempo, si ingegna per realizzare frodi ai danni della Comunità Europea (si pensi al fenomeno delle cosiddette “arance di carta”).

Nel territorio campano, i clan camorristici investono i capitali illeciti acquistando aziende agrarie, vasti appezzamenti di terreno e diversi caseifici. La Camorra riafferma la sua forte identità criminale, radicata nelle zone di origine, una subcultura deviante, alimentata dai fenomeni di disgregazione sociale e si sviluppa secondo modelli comportamentali che tendono ad aggredire il tessuto sano della società, l’economia legale. In Campania, il fenomeno delle agromafie s’intreccia con altre tipologie di reato proprie dei clan camorristici: lo smaltimento illegale dei rifiuti e il conseguente inquinamento dei terreni e delle falde acquifere. L’azione criminale contro gli agricoltori si esercita attraverso i continui incendi dolosi, i furti di attrezzature agricole e di bestiame, le intimidazioni e le minacce. Inoltre, la Camorra detiene in esclusiva il monopolio sul controllo della manodopera extracomunitaria, impiegata prevalentemente nella raccolta del pomodoro. La Dia segnala, in particolare, il coinvolgimento delle cosche mafiose nella gestione degli affari del mercato ortofrutticolo di Fondi in provincia di Latina, il cui potenziale commerciale è tra i primi in Europa. Inoltre, indagini più recenti confermano penetrazioni dell’agrocrimine camorrista in altre regioni italiane, come ad esempio l’Umbria, dove interessi mafiosi si manifestano nel settore agricolo.

In Sicilia una importante e delicata inchiesta è stata avviata ad analizzare le infiltrazioni di Cosa Nostra nel grande mercato ortofrutticolo di Vittoria, in provincia di Ragusa: sembrerebbe che il filo nero delle agromafie governi le principali direttrici del commercio dell’ortofrutta, attraverso i poli di Vittoria e Fondi, fino a raggiungere la potente area commerciale milanese. La mafia, inoltre si garantirebbe l’esclusiva di decidere il prezzo di vendita delle merci, sostituendosi arbitrariamente alle imprese produttrici che vedono gradualmente immiserirsi i propri ricavi.

Neppure risulta immune la Basilicata, regione ritenuta fino a qualche anno fa al riparo da gravi fenomeni criminali ed ora considerata al centro di episodi violenti e criminosi che colpiscono in particolar modo il settore agricolo (aggressioni, furti di mezzi e prodotti agricoli, l’abigeato e in genere il racket sull’intera filiera sono i principali reati).

Secondo il Rapporto Eurispes-Coldiretti, le agromafie, in questo periodo di fragili certezze e di insicurezza sociale diffusa, ristabiliscono il loro ruolo di mediazione economica e sociale, l’identità di “industria della protezione-estorsione”, dispensatrice malevola di sicurezza-rassicurazione per il libero esercizio dell’impresa agricola. Il pensiero criminale della mafia non si cura della bellezza dei luoghi, della promozione del prodotto agricolo dei territori; il suo agire non ha come fine l’interesse della comunità, ma, al contrario, attraverso le oscure manovre di sofisticazione e di contraffazione dei beni alimentari, minaccia il benessere sociale e la stessa sicurezza alimentare del singolo consumatore.

Fatto sta che la criminalità organizzata non solo continua a radicarsi nelle regioni meridionali danneggiandone l’economia già debole per altri aspetti, ma segna una massiccia espansione anche nel Nord della Penisola e, in specie, nelle grandi aree metropolitane dove gruppi facenti capo a mafia, ’ndrangheta, e camorra, penetrano negli apparati degli Enti locali per controllare le procedure di affidamento di appalti e opere pubbliche. Inoltre, in considerazione del fatto che la parte più cospicua dell’industria di trasformazione alimentare per volume di produzione e fatturato risulta localizzata nelle stesse regioni del Centro-Nord, non ci si può nascondere che la serie innumerevole di frodi commesse a danno dei consumatori attraverso quello che potremo definire il “furto” delle identità materiali e immateriali dell’autentico Made in Italy abbia luogo là dove più forte si levano le invocazioni alla libera concorrenza del mercato e le censure alla disfunzione del sistema istituzionale dell’altro capo del Paese.

In questo senso, una delle figure più controverse è quella dei cosiddetti “colletti bianchi” che operano nel settore agroalimentare e che stanno acquisendo un ruolo strategico per le organizzazioni criminali inserite nel business delle agromafie e interessate soprattutto a spostare l’asse dell’illegalità verso una zona neutra, di confine, nella quale diviene sempre più difficile rintracciare il reato.

Non solo Agromafia: l’italian sounding, quando il crimine è la contraffazione

L’Italian sounding rappresenta la forma più diffusa e nota di contraffazione e falso Made in Italy nel settore agroalimentare. Sempre più spesso, la pirateria agroalimentare internazionale utilizza, infatti, denominazioni geografiche, marchi, parole, immagini, slogan e ricette che si richiamano all’Italia per pubblicizzare e commercializzare prodotti che non hanno nulla a che fare con la realtà nazionale. A livello mondiale, le stime indicano che il giro d’affari dell’Italian sounding superi i 60 miliardi di euro l’anno (164 milioni di euro al giorno), cifra 2,6 volte superiore rispetto all’attuale valore delle esportazioni italiane di prodotti agroalimentari (23,3 miliardi di euro nel 2009).

Gli effetti economici diretti dell’Italian sounding sulle esportazioni di prodotti agroalimentari realmente Made in Italy, si traducono, inevitabilmente, in effetti indiretti sulla bilancia commerciale, in costante deficit nell’ultimo decennio (3,9 miliardi di euro nel 2009).

Secondo il Rapporto Eurispes-Coldiretti, per giungere ad un pareggio della bilancia commerciale del settore agroalimentare italiano, ad importazioni invariate, sarebbe sufficiente recuperare quote di mercato estero per un controvalore economico pari al 6,5% dell’attuale volume d’affari dell’Italian sounding.

Il recupero di quote di mercato per un controvalore economico superiore al 6,5%, avrebbe, viceversa, assicurato un surplus della bilancia commerciale, con effetti positivi sul Pil del comparto agroalimentare e dell’intero Sistema paese.

Siamo di fronte a un inganno globale per i consumatori che causa enormi danni economici e di immagine alla produzione e all’esportazione italiana di prodotti agroalimentari.

Gli esempi sono innumerevoli e si differenziano sia per natura merceologica, sia per paese di origine: se il Parmesan è la punta dell’iceberg diffuso in tutto il mondo, c’è anche il Romano prodotto nell’Illinois con latte di mucca anziché di pecora, il Parma venduto in Spagna senza alcun rispetto delle regole del disciplinare del Parmigiano Reggiano o la Fontina danese e svedese molto diverse da quella della Val d’Aosta, l’Asiago e il Gorgonzola statunitensi o il Cambozola tedesco, imitazione grossolana del formaggio con la goccia.

La lista è lunga anche per i salumi, con la presenza sulle tavole del mercato globale di pancetta, coppa, prosciutto Busseto Made in California, ma anche di falsi salami Toscano, Milano e addirittura di soppressata calabrese tutelata dall’Unione europea come prodotto a denominazione di origine. E non mancano casi di imitazione tra i prodotti simbolo della dieta mediterranea come il Pompeian olive oil che non ha nulla a che fare con i famosi scavi, ma è prodotto nel Maryland, o quello Romulo prodotto dalla Spagna con la raffigurazione in etichetta di una lupa che allatta Romolo e Remo. Spaghetti, pasta milanesa, tagliatelle e capellini milaneza prodotti in Portogallo, linguine Ronzoni, risotto tuscan e polenta dagli Usa e penne e fusilli tricolore Di Peppino prodotti in Austria sono alcuni esempi di primi piatti taroccati; mentre tra i condimenti risaltano i San Marzano: pomodori pelati grown domestically in the Usa o i pomodorini di collina cinesi e la salsa bolognese dall’Australia. Il comun denominatore dei sopra citati esempi di imitazione e contraffazione di prodotti agroalimentari italiani, è la spinta motivazionale da cui tali comportamenti traggono origine e si diffondono a livello globale. Tale spinta motivazionale consiste nell’opportunità, per un’azienda estera, di ottenere sul proprio mercato di riferimento un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza, associando indebitamente ai propri prodotti valori riconosciuti ed apprezzati dai consumatori stranieri, il vero Made in Italy agroalimentare, in primis la qualità.

Ogni anno sottratti al vero Made in Italy 51 miliardi di euro

Nell’anno 2009 il settore dell’industria alimentare italiana ha registrato un fatturato complessivo di 120 miliardi di euro (fonte: Federalimentari), mentre il settore agroalimentare propriamente detto, escluso il settore della silvicoltura, ha registrato un fatturato di 34 miliardi di euro (fonte: Ismea). Il giro d’affari complessivo si aggira su circa 154 miliardi di euro; in sostanza un giro d’affari che nel 2009 è stato pari a circa il 10% del Pil italiano 2009, secondo il Rapporto Eurispes-Coldiretti .

Nel nostro Paese sono state importate nel 2009 circa 27 miliardi di euro in materie prime, che sono state alternativamente:

- vendute direttamente nel nostro Paese, quindi con un marchio “Made in (paese di provenienza)”;

- trasformate tramite almeno un processo dall’industria alimentare, e che, secondo la normativa attuale, possono fregiarsi del marchio Made in Italy.

Occorre ricordare che, di tutte le materie prime importate, parte sono classificate come importazioni temporanee. Per importazioni temporanee si intendono quelle importazioni di prodotti che vengono poi rivenduti sul mercato estero dopo una qualche trasformazione che avviene in Italia ovvero importazioni di merci provenienti da uno Stato estero introdotte temporaneamente nel territorio nazionale a scopo di perfezionamento (lavorazione, trasformazione). Queste merci, pur contenendo prodotti agricoli non italiani, data l’attuale normativa, possono essere rivendute all’estero con il marchio Made in Italy; ciò significa che su 27 miliardi di euro di importazioni, una parte di queste materie prime importate sono state senz’altro riesportate come Made in Italy. Ma valutare l’entità del fenomeno solo sulle importazioni temporanee tende a sottostimarlo per due sostanziali motivi: da un lato, sono le imprese a poter decidere di dichiarare alle dogane se le loro importazioni sono temporanee o definitive; se le dichiarano come temporanee ottengono dei vantaggi fiscali che possono non valere il rischio di essere “smascherate” dai consumatori come aziende i cui prodotti non sono al 100% Made in Italy; dall’altro lato, le importazioni possono essere dichiarate temporanee solo se i prodotti vengono poi riesportati; di conseguenza, valutando l’entità del fenomeno solo su di esse, non si terrebbe conto di tutti quei prodotti importati dall’estero, trasformati in Italia e venduti sul nostro territorio nazionale che, data l’attuale normativa, possono fregiarsi del marchio Made in Italy.

Si stima che almeno un prodotto su 3 del settore agroalimentare importato in Italia sia trasformato nel nostro Paese e poi venduto sul nostro mercato interno e all’estero con il marchio Made in Italy.

Sulla bilancia dei pagamenti questo significa che almeno 9 miliardi di euro, nel solo 2009, sono stati spesi per importare dei prodotti alimentari esteri che sono poi rivenduti come prodotti nati in Italia.

Ma il dato impressionante da questo punto di vista emerge applicando questa proporzione al fatturato complessivo di 154 miliardi di euro: circa il 33% della produzione complessiva dei prodotti agroalimentari venduti in Italia ed esportati, pari a 51 miliardi di euro di fatturato, derivano da materie prime importate, trasformate e vendute con il marchio Made in Italy, in quanto la legislazione lo consente, nonostante in realtà esse possano provenire da qualsiasi parte del pianeta.

Inoltre, se si pensa in termini occupazionali, i prodotti italiani DOP e IGP sono una fonte importante direddito per almeno 250.000 persone; se si considerano, oltre a queste, anche gli addetti alla produzione dei 4.528 prodotti agroalimentari tradizionali italiani (prodotti i cui metodi di lavorazione risultano essere omogenei nel territorio di produzione, e consolidati da almeno 25 anni), dal fatturato del Made in Italy dipende una porzione non trascurabile degli addetti del settore agroalimentare, che si stima aver occupato 1,2 milioni di persone nell’anno 2009. Inoltre, si consideri che l’attività dei produttori italian sounding e dei falsificatori non colpisce i prodotti Made in Italy esclusivamente nei paesi in cui sono già affermati, ma pone una seria ipoteca sullo sviluppo degli stessi nei mercati emergenti, soprattutto in quei mercati che non hanno espresso completamente la loro domanda potenziale. Si tratta di mercati, come ad esempio quello cinese, costituiti da centinaia di milioni di persone la cui capacità d’acquisto tenderà a crescere nel tempo.

Contraffazione alimentare: oltre l’italian sounding, i barattoli vuoti dell’industria agroalimentare

L’elenco dei prodotti dell’agricoltura e dell’industria agroalimentare per i quali non è obbligatoria l’indicazione d’origine, rendendone di fatto impossibile la tracciabilità, è consistente e comprende, tra gli altri: pasta; formaggi; latte a lunga conservazione; carne di maiale, di coniglio e ovicaprine; derivati del pomodoro; frutta e verdura trasformate; derivati dei cereali.

La conseguente asimmetria informativa dovuta alla mancata indicazione d’origine di tali prodotti di largoconsumo (170 milioni di kg l’anno quello della mozzarella), si traduce inevitabilmente in:

- un’opportunità, per tutte quelle imprese dell’industria alimentare che, spinti dall’esigenza di abbattere i costi di produzione, decidono di modificare le proprie strategie di approvvigionamento di materie prime, rivolgendosi prevalentemente o esclusivamente ai mercati esteri piuttosto che a quello interno;

- un rischio per l’intera filiera agricola italiana, in termini sia economici (riduzione della produzione agricola, dei prezzi all’origine e della possibilità di accesso alla rete della grande distribuzione), sia occupazionali (chiusura delle aziende, cassa integrazione, disoccupazione); - un inganno per i consumatori, che non sono in grado di distinguere tra un prodotto di filiera agricola tutta italiana (vero Made in Italy) e un prodotto importato dall’estero e finiscono per operare scelte di consumo basandosi esclusivamente sul prezzo.

Alcune indicazioni in merito alle dimensioni del problema dei falsi dei colletti bianchi e ai rischi di contraffazione legati a questo secondo fenomeno di falso Made in Italy, difficilmente quantificabili data l’impossibilità di acquisire dati puntuali in merito alle singole aziende che importano prodotti alimentari dall’estero, sono desumibili dall’analisi delle importazioni di singoli prodotti agroalimentari, suddivisi per tipologia, paese di provenienza e provincia di destinazione.

Grano duro. Il grano duro rappresenta ormai da anni uno dei principali prodotti merceologici diimportazione italiana dell’agricoltura, sia dal punto di vista quantitativo (1,8 milioni di tonnellate nel 2010), sia dal punto di vista economico (387 milioni di euro). Complessivamente, da Canada,Messico, Stati Uniti è stato importato nel 2010 il 75,1% del grano duro (77% in valore), contro un residuo 24,9% proveniente dal resto del Mondo (23,1% in valore).

Circa un milione di tonnellate di grano duro (56,5% del totale) sono state destinate alla sola provincia di Bari. Significativo anche il dato relativo alle province di Foggia, Parma, Chieti e Ravenna (importazioni comprese tra 118.247 e 158.075 tonnellate nel 2010). Bari conferma il proprio primato rispetto alle altre province italiane anche per quel che attiene il controvalore economico delle importazioni di grano duro, che nel 2010 è stato di 209,7 milioni di euro (54,1% del totale).

Pomodori. Nel solo 2010 l’Italia ha importato dall’estero circa 10.004 tonnellate di pomodori freschi o refrigerati, il cui controvalore economico supera i 12 milioni di euro (esclusivamente importazioni definitive). La merce importata proviene prevalentemente da Israele (7.319 t, 73,2% del totale), e Marocco (1.935 t, 19,3% del totale). Complessivamente, il controvalore economico delle importazioni di pomodori freschi e refrigerati dai due Paesi è pari a circa 11 milioni di euro (92,7% del totale). Significativo è, altresì, il dato relativo alle province di destinazione dei prodotti importati, con il primato di Savona (7.319 t, valore 9,3 milioni di euro) e Torino (1.914 t, valore 1,7 milioni di euro).

Nello stesso anno, le importazioni di pomodori preparati o conservati (prodotti dell’industria alimentare) ha raggiunto le 153.358 tonnellate (valore 89,5 milioni di euro). L e importazioni temporanee rappresentano il 70,8% del totale in termini quantitativi (108.509 tonnellate) e il 73,8% in termini di controvalore economico (66 milioni di euro). Questo significa che la maggioranza assoluta dei pomodori preparati o conservati che vengono importati dall’estero sono oggetto di lavorazione e trasformazione in Italia e, successivamente, vengono esportati . Il principale paese di importazione è la Cina, dalla quale sono arrivati in Italia 120.892 tonnellate di pomodori preparati e conservati nel solo 2010 (il 78,8% del totale, valore 65,3 milioni di euro), seguita dagli Stati Uniti, con 30.327 tonnellate di merci importate (19,8% del totale) il cui valore supera i 22 milioni di euro. La provincia di Salerno è destinataria del 97,3% dei pomodori preparati o conservati importati dall’estero (97,4% in termini di controvalore economico). La percentuale di prodotti importati destinati alle altre province italiane è inferiore all’1%. Uve e prodotti vinicoli. Nel 2010, l’Italia ha importato dall’estero 32.219 tonnellate di uva fresca o secca (valore 53,9 milioni di euro). I paesi da cui proviene la maggiore quantità di uva sono la Turchia, il Cile e l’Egitto (rispettivamente 53,3%, 16,4% e 8,5% del totale), con un controvalore economico delle importazioni che supera i 41 milioni di euro (77,6% del totale). Nello stesso anno, il nostro Paese ha importato dall’estero circa 62.375 tonnellate di vini di uve fresche, per la quasi totalità provenienti dagli Stati Uniti e solo marginalmente da Cile, Argentina e altri paesi. Mentre per le uve fresche e secche le importazioni sono esclusivamente definitive, nel caso dei vini di uve fresche si registrano casi, seppur marginali, di reimportazioni e importazioni temporanee (rispettivamente 4,9 tonnellate e 300 kg nel 2010).

Relativamente alla provincia di destinazione dei prodotti importati, per i vini di uve fresche si registra una significativa concentrazione delle importazioni (in termini quantitativi il 96,3% delle merci è destinato alla provincia di Cuneo, l’89,1% in termini di controvalore economico), mentre per le uve fresche e secche sussiste una maggiore omogeneità territoriale (ad eccezione della provincia di Genova, cui sono destinate il 25,2% delle importazioni).

Carni. Un altro comparto merceologico che registra significativi volumi di importazione italiane dall’estero è quello delle carni, con 62.241 tonnellate di merci importate nel 2010 e un controvalore economico superiore a 328,4 milioni di euro. Le carni di animali della specie bovina sono la principale merce di importazione italiana (41.987 tonnellate nel 2010, valore 261,3 milioni di euro), seguita dalla specie ovina o caprina (5.708 tonnellate, valore 29 milioni di euro) e dai volatili (3.909 tonnellate, valore 9 milioni di euro). Complessivamente, le carni di animali riconducibili a queste prime tre categorie merceologiche rappresentano l’83% della quantità complessiva di carni importate (51.605 tonnellate) e il 91,3% del controvalore economico delle stesse (299 milioni di euro).

Come nel caso del latte e dei derivati del latte, le importazioni di carni sono prevalentemente definitive e solo marginalmente temporanee (rispettivamente 98,4% e 1,6% del totale).

Quest’ultime sono, inoltre, riconducibili esclusivamente alle carni di animali della specie bovina (918 tonnellate, valore 5,1 milioni di euro), della specie suina (23 tonnellate, valore 136.000 euro) e,marginalmente, ad altre carni e frattaglie commestibili.

Relativamente alla destinazione delle carni importate, si rileva, infine, il primato delle province del Nord Italia: il 62,9% delle quantità di carni bovine importate (26.388 tonnellate) arriva nelle province di Modena, Verbania, Milano e Reggio Emilia (23,9% nella sola provincia di Modena), mentre la stessa percentuale, riferita al controvalore economico delle merci importate, è pari al 64,3% del totale (168 milioni di euro); il 50% delle quantità di carne ovina o caprina importata dall’Italia è destinata alle province di Piacenza, Reggio Emilia, Milano e Varese (2.800 tonnellate, valore 14 milioni di euro); il 65,9% della carne di volatili arriva nelle province di Verbania, Piacenza e Genova, contro un residuo 34,1% destinato alle altre province italiane. Il controvalore economico delle importazioni di carne di volatili destinate alle province di Verbania, Piacenza e Genova è pari al 67,1% del totale (circa 6 milioni di euro). Olio vergine ed extra-vergine d’oliva. Ciò che rende particolarmente significativo e, nel contempo, preoccupante il caso delle importazioni italiane di olio vergine ed extra-vergine d’oliva, è la prevalenza assoluta delle importazioni temporanee rispetto a quelle definitive.

Nel solo 2010 l’Italia ha importato dall’estero 42.956 tonnellate di olio vergine ed extra-vergine d’oliva (controvalore economico 94,6 milioni di euro), di cui: 32.623 tonnellate (75,9% del totale) di olio vergine ed extra-vergine di oliva importato, oggetto di lavorazione e trasformazione e successivamente riesportato all’estero (importazioni temporanee), con un controvalore economico di 71,4 milioni di euro (75,5% del totale); 10.332 tonnellate (24,1% del totale) di olio importato definitivamente, con un controvalore economico di 23,1 milioni di euro (24,5% del totale). La provincia di Pavia è destinataria del 33,3% della quantità di olio vergine ed extra-vergine d’oliva (14.310 tonnellate, controvalore economico 32,2 milioni di euro), contro il 19,6% di olio destinato alla provincia di Lucca (8.437 tonnellate, controvalore economico 18,5 milioni di euro) e il 10,1% destinato alla provincia di Genova (4.318 tonnellate, controvalore economico 9,5 milioni di euro).

Latte e derivati del latte . Nel corso del 2010, l’Italia ha importato dall’estero circa 16.214 tonnellate di latte e prodotti derivati dal latte, con un controvalore statistico di circa 83 milioni di euro.

Le importazioni definitive rappresentano il 91,5% del totale in termini quantitativi (14.845 tonnellate di merci) e il 94% del totale in termini economici (78,4 milioni di euro), mentre la quantità di latte e prodotti derivati dal latte importati temporaneamente è stata di 1.368 tonnellate, con un controvalore statistico dicirca 4,8 milioni di euro. La principale categoria merceologica di importazione è quella dei formaggi e latticini (88,1% del totale in termini quantitativi), per i quali risultano 14.292 tonnellate di merci (valore 77,3 milioni di euro), per la quasi totalità importate definitivamente. Le province di destinazione, vedono il primato di Milano (circa 10.000 tonnellate di merci, 70,3% del totale), Venezia (806 tonnellate di merci, 5,6% del totale), Varese (725 tonnellate di merci, 5% del totale). Complessivamente, in queste prime tre province arriva l’81% delle importazioni italiane di formaggi e latticini (l’84,8% in termini di valore).

La seconda categoria merceologica comprende il latte e la crema di latte non concentrati, con 1.346tonnellate di merci importate nel 2010 e un controvalore economico di circa 4,6 milioni di euro. Le importazioni temporanee rappresentano la quasi totalità (99% della quantità e 99,5% del controvalore economico), con importazioni temporanee attestatesi, nel 2010, a 1.334 tonnellate (valore 4,5 milioni di euro). In termini di quantità, Ancona detiene il primato per provincia di destinazione delle importazioni di latte e crema di latte non concentrati (1.340 tonnellate, 99,5% della quantità totale e 99,9% del valore totale).

Una filiera italiana e firmata

All’interno della filiera agro-alimentare, l’agricoltura è il comparto con il minor potere contrattuale e con gli utili più bassi, tra tutti gli attori che vi operano. Nonostante l’andamento anticiclico della domanda dei beni alimentari, che si mantiene stabile anche in periodi di congiuntura economica, le aziende agricole hanno sofferto molto, in questi ultimi tempi, a causa della forte diminuzione dei prezzi all’origine, a cui si deve aggiungere il forte aumento dei costi dei mezzi di produzione.

Sono molteplici le cause che rendono l’agricoltura l’anello debole della filiera agro-alimentare, e vanno dall’eccessiva polverizzazione delle imprese, alla scarsa trasparenza nella formazione dei prezzi, alla mancanza di concorrenza che stimoli ed eviti di rendere asfittico il mercato, al numero troppo elevato di intermediari, con il conseguente moltiplicarsi dei costi, all’insufficienza, inadeguatezza e inefficienza delle piattaforme logistiche e delle strutture di stoccaggio, all’eccessivo potere detenuto dalla Gdo (Grande distribuzione organizzata), sino ad arrivare alle falsificazioni e imitazioni agroalimentari, il cui valore è pari al triplo di quello dell’export Made in Italy originale.

L’idea, il progetto e l’impegno proposti da Coldiretti per combattere questo stato di cose, è la creazione di una filiera agricola, italiana e firmata: completamente italiana, perché tutti i processi devono avvenire in Italia, con prodotti rigorosamente italiani, gestita − quando possibile lungo tutte le fasi − principalmente dagli agricoltori; firmata perché si tratta di una filiera i cui prodotti sono caratterizzati dai tratti distintivi propri dei luoghi di origine e produzione, ossia prodotti immediatamente riconoscibili come totalmente italiani, grazie all’etichettatura all’origine, alla trasparenza della filiera e della formazione dei prezzi, e al legame con il proprio territorio.

In questa maniera il patto di fiducia che si è sicuri di costruire con i consumatori, riuscirebbe a riportarel’agricoltura italiana a ricoprire un posto di primo piano nel panorama economico e all’interno della filiera, con evidenti ricadute economiche e di immagine positive, non solo per l’agricoltura stessa, ma per tutte le forze economiche e gli operatori coinvolti o interessati alla filiera agro-alimentare.

La realizzazione del 1° Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia è stata resa possibile grazie al contributo scientifico di Coldiretti, Ismea, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza, Corpo Forestale dello Stato, Procura Nazionale Antimafia, Agenzia delle Dogane.

Un ringraziamento particolare per il prezioso contributo prestato alla realizzazione della ricerca va a: Raffaele Guariniello, Gennaro Marasca, Vincenzo Macrì, Antonio D’Amato, Giovanni Conzo.

L’Eurispes ringrazia inoltre: i Posti di ispezione transfontaliera, gli Uffici di Sanità marittima, aerea e di frontiera, gli Uvac, le Asl (attività ispettiva), l’Arpa, gli Istituti zooprofilattici sperimentali, l’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari, l’Olaf.

FORESTE ITALIANE: LIPU, ALLARME PER GALLO CEDRONE, FAGIANO DI MONTE, BALIA DAL COLLARE E ASTORE DI SARDEGNA

I dati dello studio LIPU per il ministero dell’Ambiente sullo stato di conservazione degli uccelli in Italia

Le foreste italiane aumentano, ma la loro qualità ecologica resta bassa. E ciò comporta danni alla biodiversità di casa nostra e, in particolare, per alcune specie di uccelli: gallo cedrone, fagiano di monte, astore di Sardegna e la migratrice balia dal collare. Specie che si trovano in uno stato di cattiva conservazione, e per le quali è scattato il “semaforo rosso”: se non si migliorerà l’habitat, rischiano l’estinzione locale. Non si salvano nemmeno molte specie di picchi, giudicati in uno stato “insoddisfacente” di tutela (semaforo giallo).

I dati emergono da un recente studio effettuato dalla LIPU-BirdLife Italia per il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare sullo “stato di conservazione” dell’avifauna in Italia.

Nel 2011, Anno internazionale delle foreste, dunque, se da una parte la superficie forestale italiana aumenta (siamo a 10,6 milioni di ettari, il 34,7% del totale), la struttura dei boschi appare poco diversificata, e non idonea a ospitare gli uccelli. Fattori cui si aggiungono i troppi tagli, le carenze gestionali e la presenza di specie alloctone. “Una situazione che ci preoccupa non pocosottolinea Marco Gustin, responsabile Specie LIPU-BirdLife Italiaperché un gruppo di specie, quelle più rare e localizzate come gallo cedrone, fagiano di monte, astore di Sardegna e la balia dal collare, si trovano in una situazione di difficoltà a causa della scarsità di foreste d’alto fusto, la cui diffusione invece permetterebbe una maggiore presenza sia di queste specie che di altre. E’ un gruppo di specie che rischia estinzioni locali se non si migliorerà l’habitat in cui si riproducono”.

Lo studio LIPU realizzato per il ministero dell’Ambiente evidenzia problemi anche per altre specie come l’astore, la tordela, il luì bianco e il luì verde, così come per i picchi: picchio nero, picchio rosso mezzano, picchio dalmatino, picchio tridattilo. Tutte specie giudicate in uno stato “insoddisfacente” di tutela (semaforo giallo).

Per arginare questo fenomeno il ruolo della rete Natura 2000 è fondamentaleprosegue Claudio Celada, Direttore Conservazione Natura LIPU-BirdLife Italiaa partire dalla protezione come Zone di protezione speciale delle foreste vetuste e delle porzioni ancora prive di disturbo per gli animali. Ma anche attraverso le opportunità offerte dai Piani di sviluppo rurale, in particolare le misure silvo ambientali e le indennità Natura 2000.

Un altro fattore importante è che le aree protette e i siti ad alto tasso di biodiversità siano collegate dal punto di vista ecologico tra di loro e non diventino isole di natura circondate da cemento e infrastrutture. Dunque occorre costruire una vera e propria rete di aree che assicurino la sopravvivenza delle specieconclude Celada.

L’importanza delle foreste per gli uccelli è indiscussa a livello globale: questo habitat ospita il 70% delle specie di uccelli a livello mondiale. Su quasi 7mila specie “forestali”, un migliaio risultano essere globalmente minacciate. In Europa negli habitat di foresta boreale e temperata 12 specie su 76 sono in declino e solo una specie ha incrementato la propria popolazione.

Tra il 1980 e il 2005 alcuni modelli statistici dell’Unione europea hanno registrato un declino del 14% per gli uccelli comuni degli ambienti forestali, secondi dopo quelli degli ambienti agricoli (-43%).

Per consultare lo studio completo redatto dalla LIPU per il Ministero Ambiente: http://www.blogger.com/goog_1553062720
Documenti_di_riferimento.html (MENU’ Direttiva Uccelli)

SCHEDA – COSA MINACCIA LE 4 SPECIE DI UCCELLI FORESTALI

(dettagli e schede sulle specie nel sito http://www.uccellidaproteggere.it/ realizzato da LIPU e Ministero Ambiente).

Francolino di monte: minacciato da alterazione e disturbo dell’habitat riproduttivo, cambiamenti climatici, bracconaggio, gestione forestale impattante, infrastrutture turistiche, alta mortalità per i pulcini alla schiusa delle uova


Gallo cedrone: riduzione e frammentazione dell’habitat; impatto attività di gestione forestale; disturbo alle arene di canto; bracconaggio; impatto con cavi elettrici; cambiamenti climatici


Balia dal collare: la sua densità è elevata solo dove le pratiche di gestione forestale siano condotte nel rispetto delle esigenze ecologiche della specie, con particolare riferimento alla salvaguardia delle piante più vecchie


Astore sardegna: perdita habitat riproduttivo; persecuzione diretta; gestione forestale; frammentazione (piste forestali); incendi (cambiamenti climatici)


GIOVANI IMMATURI NEL SESSO SICURO, PROMOSSO SOLO 1 SU 10

I ginecologi SIGO presentano un sondaggio sugli studenti alle prese con l´esame di fine superiori. Il 24% delle under19 ha usato la "pillola del giorno dopo". La doppia protezione, contraccettivi ormonali e preservativo, è scelta solo dal 12%. In estate boom di rapporti a rischio. Per un teenager su 2 la prima volta è in vacanza, il 32% ha meno di 15 anni

La maturità 2011 ha già emesso il primo virtuale verdetto: 9 giovani su 10 sono bocciati in tema di sessualità consapevole. Alle prese con le ultime fatiche scolastiche si sono fatti cogliere decisamente impreparati dalla Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (SIGO) che ne ha raggiunti 1.131 per un sondaggio sui comportamenti riproduttivi. Solo il 12% utilizza abitualmente la doppia protezione (pillola più preservativo), il più efficace strumento contro gravidanze indesiderate e malattie sessualmente trasmissibili e una teenager su 4 ha fatto ricorso almeno una volta alla contraccezione di emergenza.
"Non si può mandare in ferie il cervello - commenta il prof. Herbert Valensise, segretario nazionale SIGO -. Le minorenni sono responsabili da sole del 3,4% del totale di tutte le interruzioni volontarie di gravidanza e 3 volte su 4 chi contrae un´infezione a causa di rapporti non protetti è un giovane tra i 15 e i 24 anni". Per informare i giovani la Società scientifica lancia per l´estate la campagna "Parti sicuro con Travelsex", una guida edita da Giunti e disponibile in tutte le librerie con i consigli su come proteggersi e le indicazioni su dove trovare consultori e contraccettivi anche in vacanza.
"Solo uno su 3 dichiara che li porterà con sé in viaggio - spiega la prof.ssa Alessandra Graziottin, Direttore della Ginecologia e Sessuologia Medica del San Raffaele Resnati di Milano e coordinatore scientifico del progetto "Scegli Tu" - il 19% di chi non li usa lo fa consapevolmente, perché non li ama, mentre un 49% non li ha a portata di mano al momento giusto e un 23% li dimentica. In estate bisogna prestare ancora più attenzione: è la stagione in cui la sessualità esplode (il 51% vive la prima volta proprio in questi mesi) e quella in cui si consumano più alcol e droghe (46%) fortissimi indicatori di rischio per rapporti non protetti. Il tutto aggravato dalla giovane età, il 32% inizia l´attività sessuale prima dei 15 anni, e dalla promiscuità: il 42% degli intervistati ha già avuto da 2 a 5 partner, il 10% da 6 a 10 e il 9% più di 10". Il sondaggio ha coinvolto 1.131 ragazzi (maschi e femmine) ed è stato promosso su internet e all´esterno di alcuni istituti secondari. La SIGO sarà presente dalla prossima settimana in 5 città (Bari, Genova, Trapani, Firenze e Roma) dove nelle librerie situate negli aeroporti e nei moli da cui partono i traghetti i ragazzi potranno ritirare l´opuscolo "Passaporto dell´amore", un documento che riepiloga tutte le principali informazioni in tema di contraccezione e protezione da conoscere prima di mettersi in viaggio. La campagna estiva è attiva anche on line su www.sceglitu.it dove è attivo il concorso "scrivi il tuo SMS per la prevenzione": i migliori verranno premiati in occasione della giornata mondiale della contraccezione (26 settembre 2011).

L´Italia è uno fra i Paesi europei in cui si utilizzano meno contraccettivi: la pillola è scelta solo dal 16.3% delle donne e nel 2010 si sono vendute appena 94.824.000 confezioni di preservativi, il minimo storico. "Le interruzioni volontarie di gravidanza nelle teenager sono stabili dal 1983, nel 2008 ci sono stati 4.075 aborti fra le minorenni e le malattie sessualmente trasmissibili sono in aumento - spiega il prof. Valensise -. Nel solo Lazio nel 2008 607 under19 sono diventate mamme e questa regione detiene anche il record per tasso di abortività (donne fra i 15 e i 49 anni) pari a 9,9 per 1.000, seconda solo all´Emilia Romagna (11,1). La mission di SIGO è prevenire ed evitare queste situazioni di forte rischio per la salute fisica e psichica e fornire a tutte le donne gli strumenti per poter vivere al meglio la propria sessualità. Ecco perché crediamo che si debba insistere con l´informazione, soprattutto in prossimità delle vacanze". Ogni anno a settembre si registra un boom di accessi negli ambulatori e nei reparti di ginecologia (+30%), per tentare di risolvere situazioni di crisi che si sono determinate nei mesi precedenti. "Alla ripresa delle lezioni scopriremo se e quanto i nostri sforzi abbiano ottenuto risultati - conclude la prof.ssa Graziottin - ma è evidente che i medici da soli non possono far fronte ad una carenza culturale che affonda le radici in famiglia, dove di questi temi si parla pochissimo e nella scuola. Solo il 18% dei nostri ragazzi ha dichiarato di aver ricevuto in classe una preparazione in materia di educazione sessuale". La campagna Scegli Tu promossa dalla SIGO in questi anni ha già raggiunto centinaia di migliaia di giovani, con oltre 35.000 visitatori unici al mese nel sito, decine di opuscoli distribuiti, un canale youtube dedicato e un´informazione diversificata sui vari media, con una forte presenza in tv.

INTRAPPOLATI NELLA FUGA: LE VITTIME DIMENTICATE DEL CONFLITTO IN LIBIA

Le testimonianze dei migranti raccolte da MSF in Italia e Tunisia.  

Mentre i combattimenti continuano a spingere i civili a fuggire dalla Libia, l’organizzazione medico-umanitaria internazionale Medici Senza Frontiere chiede a tutti gli Stati coinvolti una risposta umanitaria più forte e una protezione efficace per le persone in fuga dal conflitto.

MSF ha raccolto testimonianze che documentano le conseguenze delle scarse condizioni di accoglienza e l’insufficiente protezione fornita nei paesi in cui i civili sono arrivati in cerca della propria salvezza (le testimonianze sono disponibili nel rapporto reso pubblico oggi: “From a Rock to a Hard Place: The Neglected Victims of the Conflict in Libya”in inglese e in italiano). 

Più di 600.000 migranti hanno attraversato i confini libici dall’inizio della guerra. Se molti sono già stati rimpatriati ai loro paesi di origine, ancora in migliaia sono bloccati e continuano ad arrivare nelle strutture di transito in Tunisia, Egitto, Italia e Niger.

Nel campo di Shousha in Tunisia, circa 4.000 persone – soprattutto dell'Africa sub-sahariana – non possono essere rimpatriate, principalmente a causa della situazione di pericolo nei paesi di origine. Nel frattempo, 18.000 persone sono approdate sulle coste italiane, rischiando la vita a bordo di imbarcazioni inadeguate e sovraffollate per fuggire dalla guerra. 
Da febbraio, le équipe di MSF hanno effettuato più di 3.400 sessioni psicologiche con le persone in fuga dal conflitto, sia in Italia che in Tunisia. Le équipe hanno inoltre raccolto le storie del viaggio di molti pazienti in cerca di una vita migliore. Alcuni erano già stati vittime di violenze nei paesi di origine; molti hanno affrontato situazioni estremamente pericolose nel viaggio verso la Libia. Per molti di loro, la stessa vita in Libia è stata traumatica: sono fuggiti dai bombardamenti della NATO, sono stati presi e trattenuti nelle carceri e nei centri di detenzione libici, a causa della mancanza di documenti o per essere stati respinti indietro nel tentativo di raggiungere l’Europa.

Considerando che la loro libertà di movimento è rigidamente limitata, la collocazione nei campi transitori e di accoglienza equivale ad una detenzione. “Il processo di determinazione di chi ha diritto a ricevere asilo è estremamente lento e molte persone sono disperate all’idea di passare mesi o addirittura anni nei centri”, dichiara Francesca Zuccaro, Capo missione dei progetti di MSF per l'immigrazione in Italia.

Nel campo di Shousha, le condizioni di vita sono inadeguate per una permanenza di lungo termine e la sicurezza è diventata un problema crescente, come dimostrato dai violenti scontri avvenuti nel campo a maggio. Questa violenza ha esacerbato il già diffuso senso di disperazione presente fra le persone del campo. Alcuni hanno tentato la via del mare, rischiando la propria vita, pensando che in Europa l'accoglienza sia migliore.

Non avendo nessuna prospettiva, dozzine di persone hanno lasciato il campo nei giorni scorsi, pronte a rischiare ancora una volta la loro vita in cerca di un futuro migliore. Questo ci preoccupa molto”, spiega Mike Bates, Capo missione di MSF in Tunisia.

Invocando la lotta contro "l'immigrazione illegale", gli Stati europei corrono il rischio di negare la protezione e il trattamento umano di cui hanno bisogno le persone in fuga, condannandole ad una situazione di incertezza che aumenta la loro sofferenza. L'afflusso di migranti che sbarcano sulle coste italiane non costituisce “immigrazione illegale”, ma una fuga per la sopravvivenza, la salvezza e la protezione.

MSF ricorda a tutte le parti coinvolte nel conflitto e ai paesi vicini le proprie responsabilità, nel rispetto delle leggi internazionali, di tenere aperte le frontiere, offrire protezione a chi fugge dalla Libia e assicurare che le pessime condizioni di accoglienza e la mancanza di protezione possano impedire a rifugiati e richiedenti asilo di cercare una via di salvezza

Le testimonianze sono disponibili nel rapporto “From a Rock to a Hard Place: The Neglected Victims of the Conflict in Libya”  in inglese e in italiano.













TEMPI BUI PER GLI AVVOCATI IN CINA. LA REPRESSIONE SI INTENSIFICA, DENUNCIA UN RAPPORTO DI AMNESTY INTERNATIONAL

Gao Zhisheng ©Hu Jia
Secondo un rapporto diffuso oggi a Hong Kong da Amnesty International, il governo cinese sta applicando una serie di misure per mettere sotto controllo la professione legale e ridurre al silenzio gli avvocati che si occupano di diritti umani. Questi provvedimenti repressivi, in atto da due anni, si sono intensificati negli ultimi mesi.

"Gli avvocati che si occupano di diritti umani sono sottoposti a un crescendo di tattiche del silenzio, dalla sospensione o revoca della licenza fino alle minacce, alle sparizioni forzate e addirittura alla tortura" - ha dichiarato Catherine Baber, vicedirettrice del Programma Asia e Pacifico di Amnesty International.

A partire da febbraio, il timore di una "rivoluzione dei gelsomini" ispirata alla Primavera araba, ha spinto il governo ad arrestare decine di oppositori e attivisti, compresi quelli che agiscono online. Le autorità hanno effettuato retate di avvocati che si occupano di cause relative alla libertà di religione, alla libertà di espressione e ai diritti sulla terra.

"Il governo cinese sta cercando di adattare e manipolare le leggi per stroncare chi ritiene costituire una minaccia" - ha accusato Baber. "Gli avvocati per i diritti umani sono nel mirino delle autorità perché cercano di usare le leggi per proteggere i cittadini contro gli abusi compiuti dallo stato. Chiediamo al governo di rilasciare tutti coloro che sono stati arrestati o fatti sparire per aver esercitato o persino per aver protetto i diritti fondamentali".

Coloro che esercitano la professione legale devono sottoporsi a una "valutazione annuale" che molti ritengono non abbia alcun fondamento legislativo. Le autorità locali esaminano gli studi legali, mentre i singoli avvocati sono valutati da presunti Ordini indipendenti. Gli avvocati che si arrischiano a occuparsi di cause sensibili, come quelle che hanno a che fare coi diritti umani, spesso non superano l'esame e si vedono sospendere o revocare la licenza.

Quando la "valutazione annuale" e le minacce non li fermano, gli avvocati sono messi a tacere attraverso violazioni degli standard internazionali sui diritti umani e delle stesse leggi cinesi. A causa delle pressioni, delle intimidazioni e delle persecuzioni, il loro numero si è ridotto: su oltre 204.000 avvocati, solo poche centinaia osano occuparsi di diritti umani.

Nuove disposizioni introdotte negli ultimi due anni impediscono agli avvocati di difendere determinati clienti, di commentare pubblicamente i processi o di contestare i procedimenti giudiziari. Le autorità hanno anche ampliato le basi legali del reato di "incitamento alla sovversione", per il mero svolgimento di una difesa legale.

Queste misure hanno reso più difficile assumere un difensore per chi ne ha maggiore bisogno, come le persone imputate per appartenenza a gruppi religiosi non riconosciuti (tra cui la Falun Gong), i manifestanti tibetani e uiguri, le vittime di sgomberi forzati o coloro che contestano l'operato del governo in occasione di disastri naturali o in merito alla sicurezza alimentare.

Sono soprattutto le vittime di tortura e di detenzione illegale a pagare le conseguenze di una difesa inadeguata, come molti imputati condannati a morte, prevalentemente sulla base di confessioni estorte con la tortura.

"Se gli avvocati hanno paura di occuparsi di 'casi sensibili', specialmente quando si tratta di abusi da parte di pubblici ufficiali, allora è l'intero popolo cinese a non poter fare affidamento sulla legge per ottenere un risarcimento e sono, invece, le autorità a beneficiarne, potendo continuare ad agire nell'impunità. Questa repressione, alla fine, non potrà far altro che minare la fiducia della gente nei suoi dirigenti" - ha commentato Baber.

"Amnesty International chiede al governo di Pechino di ripristinare le licenze degli avvocati sospesi o revocati per essersi occupati di cause relative ai diritti umani e di affidare il governo della professione legale a organismi effettivamente indipendenti, come richiesto dagli standard internazionali e da molte persone in Cina. Gli avvocati devono essere protetti: solo in questo modo potranno esercitare in pieno il loro ruolo nella difesa dei diritti umani e nella creazione di una nazione vivace ed equa" - ha concluso Baber.





FAO: DEBELLATA LA PESTE BOVINA – COSA FARE ADESSO

L’eliminazione del virus mortale un modello per sconfiggere altre malattie.

L'eliminazione della peste bovina
significa migliori possibilità
di vita per pastori ed agricoltori.

Nel celebrare uno dei maggiori successi per la FAO e i suoi partner, vorrei ricordare che questo straordinario risultato non sarebbe stato possibile senza gli sforzi congiunti e il forte impegno dei governi, delle principali organizzazioni in Africa, in Asia e in Europa, e senza il costante sostegno dei donatori e delle istituzioni internazionali", ha dichiarato il Direttore Generale della FAO Jacques Diouf.

Le parole di Diouf fanno seguito al riconoscimento ufficiale da parte dei paesi membri della FAO dell'eliminazione a livello mondiale del letale virus della peste bovina.

La Conferenza della FAO, il più alto organo direttivo dell'agenzia ONU, ha adottato una risoluzione che dichiara la peste bovina debellata a livello mondiale. La risoluzione esorta anche la comunità mondiale a prendere le necessarie misure di follow-up, garantendo che campioni del virus e del relativo vaccino vengano conservati in laboratorio in condizioni sicure e che vengano applicati standard rigorosi in materia di monitoraggio e segnalazione della malattia.

La dichiarazione è il passo finale di una decennale campagna globale portata avanti dalla FAO, in stretto coordinamento con l'Organizzazione Mondiale per la Salute Animale (OIE), e con altri partner per debellare la peste bovina. Questo virus altamente contagioso ha ucciso negli anni milioni di bovini, di bufali e di altre specie animali, causando fame, carestie e crisi economiche, principalmente in Africa, in Asia e in Europa.

L'annuncio è arrivato dopo la conferma da parte dell'Assemblea Mondiale dell'OIE che il virus non è più in circolazione nel suo habitat naturale. L'ultimo focolaio di peste bovina è stato registrato tra i bufali selvatici del Kenya nel 2001, e l'ultima vaccinazione è stata effettuata nel 2006.

"Questo successo nell'eliminazione di un virus animale dimostra che gli interventi contro le malattie animali non rispondano alla logica del bene agricolo o commerciale bensì a quella di "Bene Pubblico Globale", in quanto contribuendo a ridurre la povertà, a migliorare la salute pubblica e la sicurezza alimentare, a garantire un più ampio accesso al mercato e migliori condizioni di salute degli animali, esse apportano benefici alle popolazioni e alle generazioni di tutto il mondo", afferma Bernard Vallat, Direttore Generale dell'OIE.

Un impegno comune

A partire dal 1994, la FAO ha guidato il Programma Mondiale di Sradicamento della Peste Bovina (GREP l'acronimo inglese), insieme all'OIE, all'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (IAEA) e ad altri partner istituzionali, governi, organizzazioni regionali quali l'Ufficio Inter-africano per le Risorse Animali e a tantissime comunità locali in tutto il mondo.

Questi meccanismi di cooperazione e coordinamento internazionale, finanziati da Unione Europea, Giappone, Irlanda, Italia, Francia, Svezia, Regno Unito, Stati Uniti, UNDP e altri, e col supporto di istituzioni accademiche e di ricerca di tutto il mondo, sono stati fondamentali per riuscire a debellare la peste bovina, specialmente nei paesi più poveri.

Il successo del programma ha dimostrato l'importanza del sostegno politico e finanziario per i servizi veterinari, per il raggiungimento delle comunità locali, per la cooperazione regionale e la ricerca.

Le prossime iniziative

Sebbene il virus della peste bovina non sia più in circolazione tra gli animali viventi, esso è ancora presente in molti laboratori. La priorità immediata della fase post-eradicazione è quella di vigilare sulla possibilità di ricomparsa del virus tra gli animali a seguito di fuoriuscite accidentali o dolose dai laboratori.

"La peste bovina è la prima malattia animale ad essere stata debellata dall'uomo e la seconda malattia in generale dopo il vaiolo. Ma dobbiamo ora concentrare la nostra attenzione sulle misure da prendere affinché tale risultato sia sostenibile nel tempo e ne possano beneficiare anche le generazioni future. A tal fine, è necessario mettere in atto una strategia post-eradicazione che prevenga eventuali possibili ricomparse della malattia", ha affermato Diouf.

La FAO, l'OIE e i loro partner sono determinati a mettere in atto delle procedure concordate a livello internazionale per tenere questi stock di virus confinati all'interno di sicure strutture di laboratorio.

Cos'è la peste bovina

La peste bovina è una malattia virale altamente contagiosa che colpisce diverse specie di animali ungulati selvatici e domestici, in particolare i bovini e i bufali. Molte specie, tra cui le pecore e le capre, quando infettate possono mostrare sintomi della malattia più lievi, ma il tasso di mortalità può raggiungere anche il 100% tra le mandrie di bovini e bufali. L'epidemia di peste bovina scoppiata in Belgio nel 1920 tra gli animali importati ha segnato un punto di svolta per attivare una cooperazione internazionale in materia di controllo delle malattie animali, e è stato fattore principale che ha portato alla creazione dell' OIE nel 1924.

Altre malattie animali ad alto impatto

La Peste dei Piccoli Ruminanti (Peste des Petits Ruminants, PPR) è una malattia animale transfrontaliera altamente contagiosa che colpisce i piccoli ruminanti sia selvatici che domestici, appartenente alla stessa famiglia del virus della peste bovina e del morbillo nell'uomo. Le pecore e le capre colpite mostrano gravi problemi respiratori e digestivi con alti tassi di mortalità.

L'afta epizootica (Foot-and-mouth disease, FMD) è una malattia virale degli animali ungulati, anch'essa altamente contagiosa, caratterizzata da febbre alta e lesioni ulcerose intorno alla bocca, sulla lingua e sulle zampe. L'infezione può essere letale negli animali giovani, come agnelli e maialini. Può anche provocare serie perdite a livello produttivo e costituire un grosso ostacolo al commercio internazionale dei prodotti da allevamento.

La brucellosi è una malattia infettiva da batterio, che provoca aborto, infertilità e diminuzione del latte da mungitura nei bovini, nelle pecore e nelle capre. Può inoltre colpire in maniera violenta anche gli uomini.

La rabbia è una malattia virale dei mammiferi, sia domestici che selvatici, che può influire negativamente sulla produzione agricola. Negli uomini l'infezione viene spesso trasmessa tramite i morsi dei cani. Essa costituisce una seria minaccia per la salute dell'uomo, specialmente nel caso dei bambini.

GRILLETTO FACILE NELLA ROMA DI ALEMANNO, SEI OMICIDI SOLO A GIUGNO

Nella Roma di Alemanno si spara. La campagna elettorale fatta dall'attuale sindaco cavalcando i temi della sicurezza appena tre anni fa, sembra ormai uno sbiadito ricordo. Se guardiamo al mese appena trascorso, a Roma ci sono stati sei omicidi (uno ogni cinque giorni) e mentre scriviamo un ragazzo di 29 anni è in fin di vita, massacrato a calci e pugni fuori da un locale nel quartiere Monti.

Il giorno peggiore dell'ultimo mese è quello a cavallo tra il 14 e il 15 giugno scorso. In meno di dodici ore nella capitale vengono uccise tre persone. Nella zona di San Basilio, per motivi legati all'usura, un uomo viene ammazzato a colpi di crick durante una lite in strada. Nelle stesse ore, sempre nella Capitale, un'anziana donna viene uccisa dal nipote che tenta di scioglierne il corpo nell'acido e poche ore dopo Rafael Coen, esponente di spicco della comunità ebraica romana viene ferito a morte da una singola coltellata nell'androne del palazzo dove abitava. L'autopsia dirà che questo secondo omicidio sarebbe opera di un killer professionista. 

Il 20 giugno, il cadavere di un pastore italiano - ucciso a bastonate - viene trovato con le mani legate vicino a una roulotte, all'altezza del deposito giudiziario Pizzuti, all'interno di un fondo agricolo in via Appia Nuova, in zona Quarto Miglio. Alla base dell'omicidio, un debito di pochi euro contratto con un cittadino straniero.  

Grilletto facile anche il 30 maggio scorso quando, in perfetto stile mafioso, due persone hanno fatto irruzione in un fast food 'Burger King', nel quartiere Tuscolano, invia di Porta Furba, e hanno esploso alcuni colpi di arma da fuoco su un presunto membro affiliato al clan dei Casamonica. Solo il giorno prima, nel quartiere di Primavalle, un romano con precedenti era stato gambizzato mentre la sera stessa, a Cecchina, alle porte della Capitale, un commando aveva fatto irruzione in un appartamento uccidendo due uomini e ferendone gravemente altri due. Una delle due vittime aveva tentato la fuga ma era stata inseguita e freddata nel cortile dello stabile. Secondo gli inquirenti, nel gruppo  di fuoco avrebbe fatto parte anche una vigilessa, figlia di un alto ufficiale dei Carabinieri originario del Cilento, con un fratello ufficiale della Guardia di Finanza e un'altra sorella questore. Secondo gli inquirenti, il padre della donna, insieme con due imprenditori - i fratelli Esposito - si sarebbe visto negare dall'ex sindaco di Pollica, Angelo Vassallo (ucciso a colpi di pistola), il permesso per la realizzazione di uno stabilimento balneare ad Acciaroli. La circostanza assume rilievo alla luce di ciò che dichiarò il fratello di Angelo Vassallo, Claudio, all'indomani del delitto: "Mio fratello - affermò - prima di essere ucciso mi disse che dei personaggi delle forze dell'ordine erano in combutta con personaggi poco raccomandabili".  

Il 10 aprile scorso, invece, a cadere sotto i colpi di uno o più sicari è un imprenditore con precedenti per reati finanziari, Roberto Ceccarelli, freddato in prossimità del Teatro delle Vittorie, in via Col Di Lana, nel quartiere Prati. Gli inquirenti sospettano che possa essersi trattato di un regolamento di conti con la Banda della Magliana. Sempre ad aprile, un uomo di trent’anni, con precedenti per spaccio di droga, è stato ucciso con un colpo di pistola alla testa mentre rientrava nella sua abitazione di Ostia Lido. Solo poche ore prima, al Tuscolano, due persone a bordo di uno scooter e con il volto coperto dai caschi, avevano esploso tre colpi di pistola di piccolo calibro contro un cittadino romano che viaggiava bordo di una Smart, in via Marco Fulvio Nobiliore. Anche in questo caso la vittima, aveva precedenti per spaccio di droga. Mentre il 14 aprile, sulla Flaminia (altezza civico 872), viene gambizzato coordinatore nazionale di CasaPound Italia nonché consigliere circoscrizionale del XX municipio.   

Alemanno, però, nel 2008 vinse la campagna elettorale predicando la sicurezza in città, sull'onda dell'indignazione nata dopo lo stupro e l'accoltellamento di una studentessa del Lesotho, nei pressi della stazione della Storta (in autunno era stata uccisa Giovanna Reggiani). Di quanto Roma non sia una città "per donne" ne parleremo in un prossima puntata. Secondo il sindaco, però, Roma è ancora una città sicura. A noi invece non basta lo spazio per raccontarne il volto più nero. 

(* Ha collaborato Virgilio Bartolucci)