Il Rapporto Eurispes-Coldiretti stima che il volume d’affari complessivo dell’agromafia sia quantificabile in 12,5 miliardi di euro (5,6% del totale), di cui: 3,7 miliardi di euro da reinvestimenti in attività lecite (30% del totale) e 8,8 miliardi di euro da attività illecite (70% del totale).
Il reinvestimento dei proventi illeciti anche in tale settore, ha come corollario il condizionamento della libera iniziativa economica attraverso attività fraudolente (quale, ad esempio, l’indebita percezione dei finanziamenti nazionali e comunitari – si pensi che nel solo 2009 la Guardia di Finanza ha accertato l’indebita percezione di oltre 92 milioni di euro di finanziamenti per aiuti all’agricoltura), ovvero mediante l’attuazione di pratiche estorsive, imponendo l’assunzione di forza lavoro e, in taluni casi, costringendo gli operatori del settore ad approvvigionarsi dei mezzi di produzione da soggetti vicini alle organizzazioni criminali, influenzando poi i prezzi di vendita (attraverso la gestione delle fasi di distribuzione all’ingrosso e del trasporto dei prodotti agricoli). L’analisi dei risultati conseguiti dalle Forze di Polizia evidenzia come l’intero comparto agroalimentare sia caratterizzato da fenomeni criminali legati al contrabbando, alla contraffazione ed alla sofisticazione di prodotti alimentari ed agricoli e dei relativi marchi garantiti, ma anche dal fenomeno del “caporalato”, che comporta lo sfruttamento dei braccianti agricoli irregolari, con conseguente evasione fiscale e contributiva. I danni al sistema sociale ed economico sono pertanto molteplici, dal pericolo per la salute dei consumatori finali, all’alterazione del regolare andamento del mercato agroalimentare.
Nel caso specifico del settore agroalimentare italiano, secondo il Rapporto Eurispes-Coldiretti, il valore aggiunto complessivo (in media 52,2 miliardi di euro su base annua nel quinquennio 2005-2009) rappresenta per la criminalità un forte incentivo, sul piano della massimizzazione del profitto, all’investimento dei proventi delle attività illecite nei comparti dell’agricoltura, caccia e silvicoltura (valore aggiunto medio 26,2 miliardi di euro, 1,9% del Sistema Paese), dell’industria alimentare, delle bevande e del tabacco (valore aggiunto medio 24,6 miliardi di euro, 1,8% del Sistema Paese), della pesca, piscicoltura e servizi connessi (valore aggiunto medio 1,4 miliardi di euro, 0,1% del Sistema Paese); la minore appetibi-lità, in termini di profittabilità degli investimenti, del settore agroalimentare rispetto ad altri settori a più alto valore aggiunto (attività immobiliari, costruzioni, trasporti, sanità e assistenza sociale) è compensata dalla persistenza e, in taluni casi, dall’aggravarsi, di molteplici fattori di criticità (effetto moltiplicatore), quali: un calo del 15,9% del numero di occupati e del 35,8% del reddito reale agricolo per occupato tra il 2000 e il 2009; il crollo significativo e generalizzato dei prezzi alla produzione; l’assoluta prevalenza di imprese individuali (87,2% delle attive) rispetto a società di persone e di capitali (rispettivamente 8,9% e 2,4% delle attive); l’elevata diffusione di piccole e medie imprese, spesso a conduzione familiare, e del fenomeno del sommerso.
Criminalità organizzata: una vera e propria holding finanziaria. La criminalità organizzata è riuscita nel tempo a consolidare e, in taluni casi, rafforzare il proprio status di grande holding finanziaria, in grado di operare, seppur in misura differente, sull’intero territorio nazionale e nella quasi totalità dei settori economici e finanziari del Sistema Paese, con un giro d’affari complessivo stimato dall’Eurispes in circa 220 miliardi di euro l’anno (l’11% del Pil).
Contestualmente alle attività criminose, la criminalità organizzata ha, infatti, sviluppato una crescente capacità di infiltrazione nel tessuto imprenditoriale italiano, avvalendosi di quest’ultimo quale luogo privilegiato di riciclaggio del denaro proveniente dalle attività illecite.
Tale vocazione “imprenditoriale”, che trova terreno ancora più fertile nell’attuale quadro congiunturale di grave e generalizzata crisi economica (in ragione delle ingenti risorse finanziarie di cui dispone), si manifesta seguendo i principî e le regole proprie della finanza, in primis quello della diversificazione del rischio e del portafoglio degli investimenti. Prefigurandosi quale obiettivo prioritario la massimizzazione dei profitti (ovvero del ritorno economico degli investimenti), la holding del crimine organizzato tende, inoltre, a privilegiare i settori e comparti economici in grado di generare un più alto valore aggiunto, quali: le attività immobiliari, il commercio (all’ingrosso e al dettaglio); i trasporti, il magazzinaggio e le comunicazioni; le costruzioni; la sanità e l’assistenza sociale. Esiste, tuttavia, un terzo aspetto che assume particolare rilevanza ai fini della composizione del portafoglio della holding, in grado di generare un effetto moltiplicatore sulla propensione all’investimento (in specifici contesti territoriali e comparti economici) fondata sulle sole esigenze di diversificazione e massimizzazione dei profitti. In particolare, la possibilità che le risorse di cui dispone la criminalità organizzata subentrino a quelle provenienti dai canali ufficiali (istituzioni pubbliche e sistema bancario) e, conseguentemente, il livello di penetrazione mafiosa in uno specifico settore economico crescono al manifestarsi di circostanze quali: una grave crisi economica (calo del fatturato, degli ordinativi, dell’occupazione e degli investimenti); un eccessivo squilibrio tra domanda e offerta di finanziamenti; un tessuto imprenditoriale caratterizzato dalla prevalenza di piccole e medie imprese (più esposte al rischio di usura, racket ed estorsioni a causa delle maggiori difficoltà di accesso al sistema creditizio); una maggiore diffusione dell’economia sommersa. I tre diversi aspetti (diversificazione del rischio, massimizzazione del profitto, effetto moltiplicatore) influenzano le scelte di investimento della criminalità organizzata in maniera profondamente diversa, integrandosi o compensandosi tra loro a seconda del contesto economico e territoriale.
Agromafie: i tentacoli nella terra
Le associazioni mafiose tendono a potenziare la loro azione di infiltrazione e di penetrazione nel mondo imprenditoriale e nell’economia legale, dimostrando una particolare capacità di modernizzazione e di visione dello sviluppo tecnologico e delle trasformazioni economiche.
In agricoltura, i principali reati che vengono attribuiti alle associazioni mafiose vanno dai comuni furti di attrezzature e mezzi agricoli all’abigeato, dalle macellazioni clandestine al danneggiamento delle colture, dall’usura al racket estorsivo, dall’abusivismo edilizio al saccheggio del patrimonio boschivo, per finire al caporalato e alle truffe, consumate, a danno dell’Unione europea.
Le agromafie insistono soprattutto nei territori meridionali a produrre le loro attività illecite, ricercando un forte alimento nelle difficoltà in cui si trovano le imprese agricole sempre più esposte agli effetti devastanti della scarsa disponibilità di soddisfacenti risorse finanziarie. Così accade che le possibilità di investimento nelle campagne decrescono miseramente e nello stesso tempo l’accesso al credito bancario risulta essere difficoltoso anche per il costo molto elevato del denaro. Il bisogno di credito immediato spinge inevitabilmente gli imprenditori agricoli a trovare nuove forme di finanziamento: l’usura e il racket sono, come è noto, le attività illecite da sempre controllate dalle cosche mafiose.
Inoltre, come denunciato dalla Coldiretti, le associazioni criminali, attraverso le suddette pratiche estorsive, finiscono per determinare l’aumento dei prezzi dei beni al consumo. Così la mafia riconsolida il proprio ruolo di industria della protezione-estorsione che l’aveva caratterizzata, fin dalle origini, assumendo di fatto il controllo politico ed economico dell’impresa e dell’imprenditore.
Non solo, ma intervenendo nel meccanismo di formazione dei prezzi, si pone come soggetto autorevole di intermediazione tra i luoghi della produzione e il consumo, assumendo l’identità di un centro autonomo di potere. L’azienda “Mafia” attraverso il sistema di imprese affiliate o collegate è in grado, come sottolineato dalla Direzione Investigativa Antimafia, di condizionare e di controllare l’intera filiera agroalimentare, «dalla produzione agricola all’arrivo della merce nei porti, dai mercati all’ingrosso alla Grande Distribuzione, dal confezionamento alla commercializzazione». Di fatto, la progressiva diffusione delle agromafie si traduce in una perdita di sicurezza sociale del cittadino e di un impoverimento dell’economia dei territori. In tempi di globalizzazione economica e di speculazioni finanziarie, le mafie hanno profondamente mutato le strategie economico-finanziarie di penetrazione e di arricchimento illecito: attraverso i processi di integrazione monetaria e gli strumenti forniti dall’innovazione tecnologica hanno reso più difficilmente ricostruibili i flussi finanziari di conversione del denaro illecito, utilizzando anche la “moneta telematica” insieme ai tradizionali luoghi del riciclaggio.
Le agromafie investono i loro ricchi proventi in larga parte in attività agricole, nel settore commerciale e nella grande distribuzione.
Un altro filone in cui l’agrocrimine si manifesta è quello della contraffazione dei marchi e degli imballaggi di vendita dei prodotti agricoli. Secondo la Coldiretti: «La diffusività e l’entità del fenomeno del falso Made in Italy ed il volume di affari connesso a condotte illegali o a pratiche commerciali improprie nel settore agroalimentare sono, ormai, di tale rilievo da poter a ragione parlare dello sviluppo di vere e proprie Agromafie, la cui crescita ed espansione appaiono supportate dall’inadeguatezza del sistema dei controlli e della comunicazione dei dati e dalle informazioni, sia con riferimento alla fase dell’importazione dei prodotti agroalimentari, sia con riferimento alle successive operazioni di trasformazione, distribuzione e vendita» .
La mafia agricola non si allontana dalla terra di origine e ne controlla ogni sua parte, ogni singolo accadimento viene sentito, intercettato e fatto proprio. La ’Ndrangheta, pur manifestando la continua volontà di espansione sull’intero territorio nazionale (e non solo), non abbandona mai il controllo sociale ed economico del territorio calabrese, in particolare rivendica il proprio dominio sulle attività agricole e sulla pastorizia, e allo stesso tempo, si ingegna per realizzare frodi ai danni della Comunità Europea (si pensi al fenomeno delle cosiddette “arance di carta”).
Nel territorio campano, i clan camorristici investono i capitali illeciti acquistando aziende agrarie, vasti appezzamenti di terreno e diversi caseifici. La Camorra riafferma la sua forte identità criminale, radicata nelle zone di origine, una subcultura deviante, alimentata dai fenomeni di disgregazione sociale e si sviluppa secondo modelli comportamentali che tendono ad aggredire il tessuto sano della società, l’economia legale. In Campania, il fenomeno delle agromafie s’intreccia con altre tipologie di reato proprie dei clan camorristici: lo smaltimento illegale dei rifiuti e il conseguente inquinamento dei terreni e delle falde acquifere. L’azione criminale contro gli agricoltori si esercita attraverso i continui incendi dolosi, i furti di attrezzature agricole e di bestiame, le intimidazioni e le minacce. Inoltre, la Camorra detiene in esclusiva il monopolio sul controllo della manodopera extracomunitaria, impiegata prevalentemente nella raccolta del pomodoro. La Dia segnala, in particolare, il coinvolgimento delle cosche mafiose nella gestione degli affari del mercato ortofrutticolo di Fondi in provincia di Latina, il cui potenziale commerciale è tra i primi in Europa. Inoltre, indagini più recenti confermano penetrazioni dell’agrocrimine camorrista in altre regioni italiane, come ad esempio l’Umbria, dove interessi mafiosi si manifestano nel settore agricolo.
In Sicilia una importante e delicata inchiesta è stata avviata ad analizzare le infiltrazioni di Cosa Nostra nel grande mercato ortofrutticolo di Vittoria, in provincia di Ragusa: sembrerebbe che il filo nero delle agromafie governi le principali direttrici del commercio dell’ortofrutta, attraverso i poli di Vittoria e Fondi, fino a raggiungere la potente area commerciale milanese. La mafia, inoltre si garantirebbe l’esclusiva di decidere il prezzo di vendita delle merci, sostituendosi arbitrariamente alle imprese produttrici che vedono gradualmente immiserirsi i propri ricavi.
Neppure risulta immune la Basilicata, regione ritenuta fino a qualche anno fa al riparo da gravi fenomeni criminali ed ora considerata al centro di episodi violenti e criminosi che colpiscono in particolar modo il settore agricolo (aggressioni, furti di mezzi e prodotti agricoli, l’abigeato e in genere il racket sull’intera filiera sono i principali reati).
Secondo il Rapporto Eurispes-Coldiretti, le agromafie, in questo periodo di fragili certezze e di insicurezza sociale diffusa, ristabiliscono il loro ruolo di mediazione economica e sociale, l’identità di “industria della protezione-estorsione”, dispensatrice malevola di sicurezza-rassicurazione per il libero esercizio dell’impresa agricola. Il pensiero criminale della mafia non si cura della bellezza dei luoghi, della promozione del prodotto agricolo dei territori; il suo agire non ha come fine l’interesse della comunità, ma, al contrario, attraverso le oscure manovre di sofisticazione e di contraffazione dei beni alimentari, minaccia il benessere sociale e la stessa sicurezza alimentare del singolo consumatore.
Fatto sta che la criminalità organizzata non solo continua a radicarsi nelle regioni meridionali danneggiandone l’economia già debole per altri aspetti, ma segna una massiccia espansione anche nel Nord della Penisola e, in specie, nelle grandi aree metropolitane dove gruppi facenti capo a mafia, ’ndrangheta, e camorra, penetrano negli apparati degli Enti locali per controllare le procedure di affidamento di appalti e opere pubbliche. Inoltre, in considerazione del fatto che la parte più cospicua dell’industria di trasformazione alimentare per volume di produzione e fatturato risulta localizzata nelle stesse regioni del Centro-Nord, non ci si può nascondere che la serie innumerevole di frodi commesse a danno dei consumatori attraverso quello che potremo definire il “furto” delle identità materiali e immateriali dell’autentico Made in Italy abbia luogo là dove più forte si levano le invocazioni alla libera concorrenza del mercato e le censure alla disfunzione del sistema istituzionale dell’altro capo del Paese.
In questo senso, una delle figure più controverse è quella dei cosiddetti “colletti bianchi” che operano nel settore agroalimentare e che stanno acquisendo un ruolo strategico per le organizzazioni criminali inserite nel business delle agromafie e interessate soprattutto a spostare l’asse dell’illegalità verso una zona neutra, di confine, nella quale diviene sempre più difficile rintracciare il reato.
Non solo Agromafia: l’italian sounding, quando il crimine è la contraffazione
L’Italian sounding rappresenta la forma più diffusa e nota di contraffazione e falso Made in Italy nel settore agroalimentare. Sempre più spesso, la pirateria agroalimentare internazionale utilizza, infatti, denominazioni geografiche, marchi, parole, immagini, slogan e ricette che si richiamano all’Italia per pubblicizzare e commercializzare prodotti che non hanno nulla a che fare con la realtà nazionale. A livello mondiale, le stime indicano che il giro d’affari dell’Italian sounding superi i 60 miliardi di euro l’anno (164 milioni di euro al giorno), cifra 2,6 volte superiore rispetto all’attuale valore delle esportazioni italiane di prodotti agroalimentari (23,3 miliardi di euro nel 2009).
Gli effetti economici diretti dell’Italian sounding sulle esportazioni di prodotti agroalimentari realmente Made in Italy, si traducono, inevitabilmente, in effetti indiretti sulla bilancia commerciale, in costante deficit nell’ultimo decennio (3,9 miliardi di euro nel 2009).
Secondo il Rapporto Eurispes-Coldiretti, per giungere ad un pareggio della bilancia commerciale del settore agroalimentare italiano, ad importazioni invariate, sarebbe sufficiente recuperare quote di mercato estero per un controvalore economico pari al 6,5% dell’attuale volume d’affari dell’Italian sounding.
Il recupero di quote di mercato per un controvalore economico superiore al 6,5%, avrebbe, viceversa, assicurato un surplus della bilancia commerciale, con effetti positivi sul Pil del comparto agroalimentare e dell’intero Sistema paese.
Siamo di fronte a un inganno globale per i consumatori che causa enormi danni economici e di immagine alla produzione e all’esportazione italiana di prodotti agroalimentari.
Gli esempi sono innumerevoli e si differenziano sia per natura merceologica, sia per paese di origine: se il Parmesan è la punta dell’iceberg diffuso in tutto il mondo, c’è anche il Romano prodotto nell’Illinois con latte di mucca anziché di pecora, il Parma venduto in Spagna senza alcun rispetto delle regole del disciplinare del Parmigiano Reggiano o la Fontina danese e svedese molto diverse da quella della Val d’Aosta, l’Asiago e il Gorgonzola statunitensi o il Cambozola tedesco, imitazione grossolana del formaggio con la goccia.
La lista è lunga anche per i salumi, con la presenza sulle tavole del mercato globale di pancetta, coppa, prosciutto Busseto Made in California, ma anche di falsi salami Toscano, Milano e addirittura di soppressata calabrese tutelata dall’Unione europea come prodotto a denominazione di origine. E non mancano casi di imitazione tra i prodotti simbolo della dieta mediterranea come il Pompeian olive oil che non ha nulla a che fare con i famosi scavi, ma è prodotto nel Maryland, o quello Romulo prodotto dalla Spagna con la raffigurazione in etichetta di una lupa che allatta Romolo e Remo. Spaghetti, pasta milanesa, tagliatelle e capellini milaneza prodotti in Portogallo, linguine Ronzoni, risotto tuscan e polenta dagli Usa e penne e fusilli tricolore Di Peppino prodotti in Austria sono alcuni esempi di primi piatti taroccati; mentre tra i condimenti risaltano i San Marzano: pomodori pelati grown domestically in the Usa o i pomodorini di collina cinesi e la salsa bolognese dall’Australia. Il comun denominatore dei sopra citati esempi di imitazione e contraffazione di prodotti agroalimentari italiani, è la spinta motivazionale da cui tali comportamenti traggono origine e si diffondono a livello globale. Tale spinta motivazionale consiste nell’opportunità, per un’azienda estera, di ottenere sul proprio mercato di riferimento un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza, associando indebitamente ai propri prodotti valori riconosciuti ed apprezzati dai consumatori stranieri, il vero Made in Italy agroalimentare, in primis la qualità.
Ogni anno sottratti al vero Made in Italy 51 miliardi di euro
Nell’anno 2009 il settore dell’industria alimentare italiana ha registrato un fatturato complessivo di 120 miliardi di euro (fonte: Federalimentari), mentre il settore agroalimentare propriamente detto, escluso il settore della silvicoltura, ha registrato un fatturato di 34 miliardi di euro (fonte: Ismea). Il giro d’affari complessivo si aggira su circa 154 miliardi di euro; in sostanza un giro d’affari che nel 2009 è stato pari a circa il 10% del Pil italiano 2009, secondo il Rapporto Eurispes-Coldiretti .
Nel nostro Paese sono state importate nel 2009 circa 27 miliardi di euro in materie prime, che sono state alternativamente:
- vendute direttamente nel nostro Paese, quindi con un marchio “Made in (paese di provenienza)”;
- trasformate tramite almeno un processo dall’industria alimentare, e che, secondo la normativa attuale, possono fregiarsi del marchio Made in Italy.
Occorre ricordare che, di tutte le materie prime importate, parte sono classificate come importazioni temporanee. Per importazioni temporanee si intendono quelle importazioni di prodotti che vengono poi rivenduti sul mercato estero dopo una qualche trasformazione che avviene in Italia ovvero importazioni di merci provenienti da uno Stato estero introdotte temporaneamente nel territorio nazionale a scopo di perfezionamento (lavorazione, trasformazione). Queste merci, pur contenendo prodotti agricoli non italiani, data l’attuale normativa, possono essere rivendute all’estero con il marchio Made in Italy; ciò significa che su 27 miliardi di euro di importazioni, una parte di queste materie prime importate sono state senz’altro riesportate come Made in Italy. Ma valutare l’entità del fenomeno solo sulle importazioni temporanee tende a sottostimarlo per due sostanziali motivi: da un lato, sono le imprese a poter decidere di dichiarare alle dogane se le loro importazioni sono temporanee o definitive; se le dichiarano come temporanee ottengono dei vantaggi fiscali che possono non valere il rischio di essere “smascherate” dai consumatori come aziende i cui prodotti non sono al 100% Made in Italy; dall’altro lato, le importazioni possono essere dichiarate temporanee solo se i prodotti vengono poi riesportati; di conseguenza, valutando l’entità del fenomeno solo su di esse, non si terrebbe conto di tutti quei prodotti importati dall’estero, trasformati in Italia e venduti sul nostro territorio nazionale che, data l’attuale normativa, possono fregiarsi del marchio Made in Italy.
Si stima che almeno un prodotto su 3 del settore agroalimentare importato in Italia sia trasformato nel nostro Paese e poi venduto sul nostro mercato interno e all’estero con il marchio Made in Italy.
Sulla bilancia dei pagamenti questo significa che almeno 9 miliardi di euro, nel solo 2009, sono stati spesi per importare dei prodotti alimentari esteri che sono poi rivenduti come prodotti nati in Italia.
Ma il dato impressionante da questo punto di vista emerge applicando questa proporzione al fatturato complessivo di 154 miliardi di euro: circa il 33% della produzione complessiva dei prodotti agroalimentari venduti in Italia ed esportati, pari a 51 miliardi di euro di fatturato, derivano da materie prime importate, trasformate e vendute con il marchio Made in Italy, in quanto la legislazione lo consente, nonostante in realtà esse possano provenire da qualsiasi parte del pianeta.
Inoltre, se si pensa in termini occupazionali, i prodotti italiani DOP e IGP sono una fonte importante direddito per almeno 250.000 persone; se si considerano, oltre a queste, anche gli addetti alla produzione dei 4.528 prodotti agroalimentari tradizionali italiani (prodotti i cui metodi di lavorazione risultano essere omogenei nel territorio di produzione, e consolidati da almeno 25 anni), dal fatturato del Made in Italy dipende una porzione non trascurabile degli addetti del settore agroalimentare, che si stima aver occupato 1,2 milioni di persone nell’anno 2009. Inoltre, si consideri che l’attività dei produttori italian sounding e dei falsificatori non colpisce i prodotti Made in Italy esclusivamente nei paesi in cui sono già affermati, ma pone una seria ipoteca sullo sviluppo degli stessi nei mercati emergenti, soprattutto in quei mercati che non hanno espresso completamente la loro domanda potenziale. Si tratta di mercati, come ad esempio quello cinese, costituiti da centinaia di milioni di persone la cui capacità d’acquisto tenderà a crescere nel tempo.
Contraffazione alimentare: oltre l’italian sounding, i barattoli vuoti dell’industria agroalimentare
L’elenco dei prodotti dell’agricoltura e dell’industria agroalimentare per i quali non è obbligatoria l’indicazione d’origine, rendendone di fatto impossibile la tracciabilità, è consistente e comprende, tra gli altri: pasta; formaggi; latte a lunga conservazione; carne di maiale, di coniglio e ovicaprine; derivati del pomodoro; frutta e verdura trasformate; derivati dei cereali.
La conseguente asimmetria informativa dovuta alla mancata indicazione d’origine di tali prodotti di largoconsumo (170 milioni di kg l’anno quello della mozzarella), si traduce inevitabilmente in:
- un’opportunità, per tutte quelle imprese dell’industria alimentare che, spinti dall’esigenza di abbattere i costi di produzione, decidono di modificare le proprie strategie di approvvigionamento di materie prime, rivolgendosi prevalentemente o esclusivamente ai mercati esteri piuttosto che a quello interno;
- un rischio per l’intera filiera agricola italiana, in termini sia economici (riduzione della produzione agricola, dei prezzi all’origine e della possibilità di accesso alla rete della grande distribuzione), sia occupazionali (chiusura delle aziende, cassa integrazione, disoccupazione); - un inganno per i consumatori, che non sono in grado di distinguere tra un prodotto di filiera agricola tutta italiana (vero Made in Italy) e un prodotto importato dall’estero e finiscono per operare scelte di consumo basandosi esclusivamente sul prezzo.
Alcune indicazioni in merito alle dimensioni del problema dei falsi dei colletti bianchi e ai rischi di contraffazione legati a questo secondo fenomeno di falso Made in Italy, difficilmente quantificabili data l’impossibilità di acquisire dati puntuali in merito alle singole aziende che importano prodotti alimentari dall’estero, sono desumibili dall’analisi delle importazioni di singoli prodotti agroalimentari, suddivisi per tipologia, paese di provenienza e provincia di destinazione.
Grano duro. Il grano duro rappresenta ormai da anni uno dei principali prodotti merceologici diimportazione italiana dell’agricoltura, sia dal punto di vista quantitativo (1,8 milioni di tonnellate nel 2010), sia dal punto di vista economico (387 milioni di euro). Complessivamente, da Canada,Messico, Stati Uniti è stato importato nel 2010 il 75,1% del grano duro (77% in valore), contro un residuo 24,9% proveniente dal resto del Mondo (23,1% in valore).
Circa un milione di tonnellate di grano duro (56,5% del totale) sono state destinate alla sola provincia di Bari. Significativo anche il dato relativo alle province di Foggia, Parma, Chieti e Ravenna (importazioni comprese tra 118.247 e 158.075 tonnellate nel 2010). Bari conferma il proprio primato rispetto alle altre province italiane anche per quel che attiene il controvalore economico delle importazioni di grano duro, che nel 2010 è stato di 209,7 milioni di euro (54,1% del totale).
Pomodori. Nel solo 2010 l’Italia ha importato dall’estero circa 10.004 tonnellate di pomodori freschi o refrigerati, il cui controvalore economico supera i 12 milioni di euro (esclusivamente importazioni definitive). La merce importata proviene prevalentemente da Israele (7.319 t, 73,2% del totale), e Marocco (1.935 t, 19,3% del totale). Complessivamente, il controvalore economico delle importazioni di pomodori freschi e refrigerati dai due Paesi è pari a circa 11 milioni di euro (92,7% del totale). Significativo è, altresì, il dato relativo alle province di destinazione dei prodotti importati, con il primato di Savona (7.319 t, valore 9,3 milioni di euro) e Torino (1.914 t, valore 1,7 milioni di euro).
Nello stesso anno, le importazioni di pomodori preparati o conservati (prodotti dell’industria alimentare) ha raggiunto le 153.358 tonnellate (valore 89,5 milioni di euro). L e importazioni temporanee rappresentano il 70,8% del totale in termini quantitativi (108.509 tonnellate) e il 73,8% in termini di controvalore economico (66 milioni di euro). Questo significa che la maggioranza assoluta dei pomodori preparati o conservati che vengono importati dall’estero sono oggetto di lavorazione e trasformazione in Italia e, successivamente, vengono esportati . Il principale paese di importazione è la Cina, dalla quale sono arrivati in Italia 120.892 tonnellate di pomodori preparati e conservati nel solo 2010 (il 78,8% del totale, valore 65,3 milioni di euro), seguita dagli Stati Uniti, con 30.327 tonnellate di merci importate (19,8% del totale) il cui valore supera i 22 milioni di euro. La provincia di Salerno è destinataria del 97,3% dei pomodori preparati o conservati importati dall’estero (97,4% in termini di controvalore economico). La percentuale di prodotti importati destinati alle altre province italiane è inferiore all’1%. Uve e prodotti vinicoli. Nel 2010, l’Italia ha importato dall’estero 32.219 tonnellate di uva fresca o secca (valore 53,9 milioni di euro). I paesi da cui proviene la maggiore quantità di uva sono la Turchia, il Cile e l’Egitto (rispettivamente 53,3%, 16,4% e 8,5% del totale), con un controvalore economico delle importazioni che supera i 41 milioni di euro (77,6% del totale). Nello stesso anno, il nostro Paese ha importato dall’estero circa 62.375 tonnellate di vini di uve fresche, per la quasi totalità provenienti dagli Stati Uniti e solo marginalmente da Cile, Argentina e altri paesi. Mentre per le uve fresche e secche le importazioni sono esclusivamente definitive, nel caso dei vini di uve fresche si registrano casi, seppur marginali, di reimportazioni e importazioni temporanee (rispettivamente 4,9 tonnellate e 300 kg nel 2010).
Relativamente alla provincia di destinazione dei prodotti importati, per i vini di uve fresche si registra una significativa concentrazione delle importazioni (in termini quantitativi il 96,3% delle merci è destinato alla provincia di Cuneo, l’89,1% in termini di controvalore economico), mentre per le uve fresche e secche sussiste una maggiore omogeneità territoriale (ad eccezione della provincia di Genova, cui sono destinate il 25,2% delle importazioni).
Carni. Un altro comparto merceologico che registra significativi volumi di importazione italiane dall’estero è quello delle carni, con 62.241 tonnellate di merci importate nel 2010 e un controvalore economico superiore a 328,4 milioni di euro. Le carni di animali della specie bovina sono la principale merce di importazione italiana (41.987 tonnellate nel 2010, valore 261,3 milioni di euro), seguita dalla specie ovina o caprina (5.708 tonnellate, valore 29 milioni di euro) e dai volatili (3.909 tonnellate, valore 9 milioni di euro). Complessivamente, le carni di animali riconducibili a queste prime tre categorie merceologiche rappresentano l’83% della quantità complessiva di carni importate (51.605 tonnellate) e il 91,3% del controvalore economico delle stesse (299 milioni di euro).
Come nel caso del latte e dei derivati del latte, le importazioni di carni sono prevalentemente definitive e solo marginalmente temporanee (rispettivamente 98,4% e 1,6% del totale).
Quest’ultime sono, inoltre, riconducibili esclusivamente alle carni di animali della specie bovina (918 tonnellate, valore 5,1 milioni di euro), della specie suina (23 tonnellate, valore 136.000 euro) e,marginalmente, ad altre carni e frattaglie commestibili.
Relativamente alla destinazione delle carni importate, si rileva, infine, il primato delle province del Nord Italia: il 62,9% delle quantità di carni bovine importate (26.388 tonnellate) arriva nelle province di Modena, Verbania, Milano e Reggio Emilia (23,9% nella sola provincia di Modena), mentre la stessa percentuale, riferita al controvalore economico delle merci importate, è pari al 64,3% del totale (168 milioni di euro); il 50% delle quantità di carne ovina o caprina importata dall’Italia è destinata alle province di Piacenza, Reggio Emilia, Milano e Varese (2.800 tonnellate, valore 14 milioni di euro); il 65,9% della carne di volatili arriva nelle province di Verbania, Piacenza e Genova, contro un residuo 34,1% destinato alle altre province italiane. Il controvalore economico delle importazioni di carne di volatili destinate alle province di Verbania, Piacenza e Genova è pari al 67,1% del totale (circa 6 milioni di euro). Olio vergine ed extra-vergine d’oliva. Ciò che rende particolarmente significativo e, nel contempo, preoccupante il caso delle importazioni italiane di olio vergine ed extra-vergine d’oliva, è la prevalenza assoluta delle importazioni temporanee rispetto a quelle definitive.
Nel solo 2010 l’Italia ha importato dall’estero 42.956 tonnellate di olio vergine ed extra-vergine d’oliva (controvalore economico 94,6 milioni di euro), di cui: 32.623 tonnellate (75,9% del totale) di olio vergine ed extra-vergine di oliva importato, oggetto di lavorazione e trasformazione e successivamente riesportato all’estero (importazioni temporanee), con un controvalore economico di 71,4 milioni di euro (75,5% del totale); 10.332 tonnellate (24,1% del totale) di olio importato definitivamente, con un controvalore economico di 23,1 milioni di euro (24,5% del totale). La provincia di Pavia è destinataria del 33,3% della quantità di olio vergine ed extra-vergine d’oliva (14.310 tonnellate, controvalore economico 32,2 milioni di euro), contro il 19,6% di olio destinato alla provincia di Lucca (8.437 tonnellate, controvalore economico 18,5 milioni di euro) e il 10,1% destinato alla provincia di Genova (4.318 tonnellate, controvalore economico 9,5 milioni di euro).
Latte e derivati del latte . Nel corso del 2010, l’Italia ha importato dall’estero circa 16.214 tonnellate di latte e prodotti derivati dal latte, con un controvalore statistico di circa 83 milioni di euro.
Le importazioni definitive rappresentano il 91,5% del totale in termini quantitativi (14.845 tonnellate di merci) e il 94% del totale in termini economici (78,4 milioni di euro), mentre la quantità di latte e prodotti derivati dal latte importati temporaneamente è stata di 1.368 tonnellate, con un controvalore statistico dicirca 4,8 milioni di euro. La principale categoria merceologica di importazione è quella dei formaggi e latticini (88,1% del totale in termini quantitativi), per i quali risultano 14.292 tonnellate di merci (valore 77,3 milioni di euro), per la quasi totalità importate definitivamente. Le province di destinazione, vedono il primato di Milano (circa 10.000 tonnellate di merci, 70,3% del totale), Venezia (806 tonnellate di merci, 5,6% del totale), Varese (725 tonnellate di merci, 5% del totale). Complessivamente, in queste prime tre province arriva l’81% delle importazioni italiane di formaggi e latticini (l’84,8% in termini di valore).
La seconda categoria merceologica comprende il latte e la crema di latte non concentrati, con 1.346tonnellate di merci importate nel 2010 e un controvalore economico di circa 4,6 milioni di euro. Le importazioni temporanee rappresentano la quasi totalità (99% della quantità e 99,5% del controvalore economico), con importazioni temporanee attestatesi, nel 2010, a 1.334 tonnellate (valore 4,5 milioni di euro). In termini di quantità, Ancona detiene il primato per provincia di destinazione delle importazioni di latte e crema di latte non concentrati (1.340 tonnellate, 99,5% della quantità totale e 99,9% del valore totale).
Una filiera italiana e firmata
All’interno della filiera agro-alimentare, l’agricoltura è il comparto con il minor potere contrattuale e con gli utili più bassi, tra tutti gli attori che vi operano. Nonostante l’andamento anticiclico della domanda dei beni alimentari, che si mantiene stabile anche in periodi di congiuntura economica, le aziende agricole hanno sofferto molto, in questi ultimi tempi, a causa della forte diminuzione dei prezzi all’origine, a cui si deve aggiungere il forte aumento dei costi dei mezzi di produzione.
Sono molteplici le cause che rendono l’agricoltura l’anello debole della filiera agro-alimentare, e vanno dall’eccessiva polverizzazione delle imprese, alla scarsa trasparenza nella formazione dei prezzi, alla mancanza di concorrenza che stimoli ed eviti di rendere asfittico il mercato, al numero troppo elevato di intermediari, con il conseguente moltiplicarsi dei costi, all’insufficienza, inadeguatezza e inefficienza delle piattaforme logistiche e delle strutture di stoccaggio, all’eccessivo potere detenuto dalla Gdo (Grande distribuzione organizzata), sino ad arrivare alle falsificazioni e imitazioni agroalimentari, il cui valore è pari al triplo di quello dell’export Made in Italy originale.
L’idea, il progetto e l’impegno proposti da Coldiretti per combattere questo stato di cose, è la creazione di una filiera agricola, italiana e firmata: completamente italiana, perché tutti i processi devono avvenire in Italia, con prodotti rigorosamente italiani, gestita − quando possibile lungo tutte le fasi − principalmente dagli agricoltori; firmata perché si tratta di una filiera i cui prodotti sono caratterizzati dai tratti distintivi propri dei luoghi di origine e produzione, ossia prodotti immediatamente riconoscibili come totalmente italiani, grazie all’etichettatura all’origine, alla trasparenza della filiera e della formazione dei prezzi, e al legame con il proprio territorio.
In questa maniera il patto di fiducia che si è sicuri di costruire con i consumatori, riuscirebbe a riportarel’agricoltura italiana a ricoprire un posto di primo piano nel panorama economico e all’interno della filiera, con evidenti ricadute economiche e di immagine positive, non solo per l’agricoltura stessa, ma per tutte le forze economiche e gli operatori coinvolti o interessati alla filiera agro-alimentare.
La realizzazione del 1° Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia è stata resa possibile grazie al contributo scientifico di Coldiretti, Ismea, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza, Corpo Forestale dello Stato, Procura Nazionale Antimafia, Agenzia delle Dogane.
Un ringraziamento particolare per il prezioso contributo prestato alla realizzazione della ricerca va a: Raffaele Guariniello, Gennaro Marasca, Vincenzo Macrì, Antonio D’Amato, Giovanni Conzo.
L’Eurispes ringrazia inoltre: i Posti di ispezione transfontaliera, gli Uffici di Sanità marittima, aerea e di frontiera, gli Uvac, le Asl (attività ispettiva), l’Arpa, gli Istituti zooprofilattici sperimentali, l’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari, l’Olaf.
Fonte: http://www.coldiretti.it/
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