martedì 25 maggio 2010

Greenpeace: "Artic Under Pressure", nuova spedizione nei mari artici


È Partita la spedizione “Artic Under Pressure”, a bordo della nave di Greenpeace “Esperanza”, in collaborazione con una troupe di scienziati dell’istituto di ricerca tedesco IFM-GEOMAR. Studierà i problemi legati all’acidificazione del mare, allo scioglimento dei ghiacciai causato dai cambiamenti climatici e all’espansione a nord delle flotte della pesca industrializzata. La spedizione opererà nei dintorni dell’Arcipelago delle Svalbard nel mar Glaciale Artico e si concluderà a metà settembre.

«Gli effetti cumulativi delle attività umane stanno mettendo in pericolo l’Artico: invece di proteggerlo, gli Stati si stanno facendo la guerra per arraffare quanto più possibile - denuncia Giorgia Monti, responsabile della campagna Mare di Greenpeace - Greenpeace chiede una moratoria alle attività umane nell’Artico, fino a quando non sarà negoziato un Accordo Internazionale per la tutela del Polo Nord».

Muniti di oltre trenta tonnellate di apparecchiature, gli scienziati condurranno, tra il 27 maggio e il 12 luglio, un esperimento unico nel suo genere: simuleranno nel territorio di Kongsfjord le future condizioni del processo di acidificazione del mare, simulando un aumento di C02 (dai 390 ppm di oggi ai 1250 ppm attesi per la metà del prossimo secolo) all’interno di nove contenitori – mesocosmi - che isoleranno una colonna d’acqua alta 17 metri, con c.a. 40 metri cubi di volume.

Il processo di acidificazione degli oceani è causato dall’aumento dei livelli di CO2 dovuto all’utilizzo di combustibili fossili e alla distruzione delle foreste. Gli oceani assorbono ogni anno circa 8 miliardi di tonnellate di CO2 e diventano acidi come una bevanda gassata. In un ambiente acido, le strutture calcaree di molti organismi marini diventano instabili: questo potrebbe minacciare la sopravvivenza di plankton, coralli e altre specie marine come molluschi e crostacei.

Dall’8 giugno al 6 luglio, Greenpeace monitorerà, inoltre, l’espansione delle attività di pesca in aree che fino a pochi anni fa non erano accessibili, per la presenza dei ghiacci. La pesca intensiva, e in particolare la pesca a strascico, rischia di distruggere gli ultimi fondali marini intatti dell’emisfero nord.

Da agosto a metà settembre un team coordinato dal fisico Peter Wadhams, professore di fisica degli oceani all'Università di Cambridge concluderà gli studi effettuando una serie di test volti a stabilire lo spessore dei ghiacci nel mar Glaciale Artico e la velocità a cui si sciolgono.

Fonte: Greenpeace

giovedì 20 maggio 2010

Pedaliamo insieme verso il traguardo


Questo fine settimana parte il Giro d'Italia dell'acqua. Chiunque può organizzare pedalate in compagnia in nome dell'acqua pubblica e dei beni comuni. Anche lungo le strade del Giro d'Italia, intanto, si potranno trovare i nostri banchetti di raccolta firme per sostenere i tre referendum per l'acqua pubblica. Qui trovate la locandina del Giro d'Italia dell'acqua pubblica e qui la mappa di tutti i banchetti. L'obiettivo che il Comitato Promotore si era posto (700mila firme) è ormai in vista e può essere superato. Da qui a luglio lanceremo eventi, feste, spettacoli per coinvolgere sempre più italiani in questa civile lotta di democrazia per togliere le mani degli speculatori dall'acqua riconsegnandola ai cittadini e ai Comuni.

I tre quesiti vogliono abrogare la vergognosa legge approvata dall’attuale governo lnel novembre 2009 e le norme approvate da altri governi in passato che andavano nella stessa direzione, quella di considerare l’acqua una merce e la sua gestione finalizzata a produrre profitti. Dal punto di vista normativo, l’approvazione dei tre quesiti rimanderà, per l’affidamento del servizio idrico integrato, al vigente art. 114 del Decreto Legislativo n. 267/2000.

Tale articolo prevede il ricorso alle aziende speciali o, in ogni caso, ad enti di diritto pubblico che qualificano il servizio idrico come strutturalmente e funzionalmente “privo di rilevanza economica”, servizio di interesse generale e privo di profitti nella sua erogazione.

Verrebbero poste le premesse migliori per l’approvazione della legge d’iniziativa popolare, già consegnata al Parlamento nel 2007 dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua, corredata da oltre 400.000 firme di cittadini. E si riaprirebbe sui territori la discussione e il confronto sulla rifondazione di un nuovo modello di pubblico, che può definirsi tale solo se costruito sulla democrazia partecipativa, il controllo democratico e la partecipazione diretta dei lavoratori, dei cittadini e delle comunità locali.

Fonte:acquabenecomune

Greenpeace scala la sede della BP a Londra


Questa mattina attivisti di Greenpeace hanno scalato la sede centrale della BP a Londra, aprendo sopra l’ingresso dell’edificio una bandiera con il simbolo verde della multinazionale imbrattato da una grossa macchia di petrolio. Atteso per oggi l’arrivo del direttore esecutivo della BP Tony Hayward per presiedere il Consiglio d’amministrazione che ha come oggetto lo sversamento di petrolio del Golfo del Messico.

Gli attivisti sono arrivati all’alba e si sono arrampicati su un piccolo balcone proprio sopra l’entrata principale. Hanno poi posizionato, al posto di quella della multinazionale, una bandiera gigante con il logo alterato e la scritta BP “ British Polluter” (Inquinatori Britannici). Mentre gli impiegati iniziavano a entrare nell’edificio altri attivisti si sono piazzati all’entrata laterale con un identico messaggio per ricevere i rappresentanti dell’esecutivo.

A un mese dall’esplosione della Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, migliaia di barili di petrolio continuano a riversarsi in mare e a nulla sono valsi i tentativi della BP per arginarlo. Questa è la prima volta dal disastro che il direttore esecutivo della BP, Hayward, si reca presso la sede centrale nel Regno Unito.

"Il disastro del Golfo del Messico può essere fatto risalire a decisioni che sono state prese in questo edificio. – sostiene uno degli attivisti - Sotto la direzione di Tony Hayward, BP si è assunta il rischio di pompare petrolio da posti sempre più remoti, tagliando investimenti per l’energia pulita, l’unica in grado di ridurre la dipendenza del mondo dal petrolio e sconfiggere i cambiamenti climatici".

A marzo, in una sua presentazione era stato proprio il direttore esecutivo Hayward a dichiarare che nel corso del 2010 BP aveva intenzione di investire 19 miliardi di dollari in petrolio e gas ma meno di un miliardo di dollari in tecnologie alternative.

"Il logo verde di BP è solo un tentativo patetico di distrarre l’opinione pubblica da ciò che in realtà questa compagnia sta facendo contro l’ambiente, dalle pericolose perforazioni nel Golfo del Messico al disastro delle sabbie bituminose del Canada. Se non vengono intraprese subito azioni decise e la BP non cambia la proprie politiche – afferma Giorgia Monti, responsabile campagna Mare di Greenpeace Italia – è certo che questo approccio porterà purtroppo a ulteriori disastri".

Fonte:Greenpeace

CENSIS/COLDIRETTI: È L’ERA DEL POLITEISMO ALIMENTARE, 4 ITALIANI SU 10 «FRUSTRATI» A TAVOLA.


Vorrei mangiare più sano, ma non ci riesco”: è questa l’affermazione che descrive meglio il rapporto con il cibo di quasi il 37% degli italiani (quota che sale al 40,5% tra i 30-44enni, ad oltre il 40% tra le donne e sopra il 43% tra le casalinghe).

È quanto emerge dal Primo Rapporto Censis/Coldiretti sulle abitudini alimentari degli italiani, dal quale si evidenzia che i «frustrati» a tavola sono in numero superiore al 33% di italiani che invece dichiarano di seguire una dieta sana perché l’alimentazione è tra i fattori importanti per la salute. E sono soprattutto gli anziani (40,3%) e i laureati (37,6%) a praticare questa tendenza salutista. Informarsi sul cibo per gli italiani, infatti, è sempre più importante: quasi il 62% degli intervistati si dichiara molto informato sui valori nutrizionali, le calorie e i grassi riguardanti i vari alimenti. Il 34% degli intervistati ritiene, poi, che la propria alimentazione dipenda in via prioritaria da scelte soggettive (che hanno bisogno di tante informazioni per essere adeguate), per il 30,4% dalla tradizione familiare, e per poco meno del 19% da quello che ci si può permettere, tenuto conto del reddito e dei prezzi. Quanto alle principali fonti di informazione sugli alimenti, oltre alla televisione è il web (51,1%) la fonte primaria; seguono i quotidiani, i settimanali e i periodici (34%), poi i familiari e gli amici (25,5%), mentre il 25,6% ricorre invece ai negozianti e al personale del punto vendita. Come per la salute, anche per il cibo il web è un formidabile moltiplicatore di offerta informativa e di comunicazione, perché la sua logica orizzontale facilita la ricerca individualizzata relativa agli aspetti che interessano singolarmente. «Emerge una importante segmentazione dei comportamenti, con un terzo degli italiani che riconosce il valore dell’alimentazione e si comporta di conseguenza, un terzo che per stili di vita, tentazioni e stress pur consapevole non riesce a comportarsi correttamente, e un terzo che non è attento alla tavola per mancanza di conoscenza» - ha affermato il presidente della Coldiretti Sergio Marini, sottolineando che «su quest’ultimo segmento occorre responsabilmente lavorare in un Paese come l’Italia che non può più permettersi di dare per scontata la qualità del cibo portato in tavola come avveniva in passato, quando gli effetti della globalizzazione non erano così rilevanti». «La Coldiretti – ha precisato Marini – è impegnata nelle scuole, nelle piazze e nei mercati con il progetto Educazione alla campagna per far conoscere i principi della sana alimentazione. In Italia ben quattro italiani su dieci (43%) risultano sovrappeso o addirittura obesi (11%), con una netta prevalenza degli uomini rispetto alle donne. Le malattie collegate direttamente all’obesità sono responsabili di ben il 7% dei costi sanitari dell’Unione europea, poiché l’aumento di peso è un importante fattore di rischio per molte malattie come i problemi cardiocircolatori, il diabete, l’ipertensione, l’infarto e certi tipi di cancro. Sulla base dei dati della Commissione europea, le spese socio-sanitarie correlate all’obesità in Italia sono stimate in circa 23 miliardi di euro annui, per più del 60% dovute all’incremento della spesa farmaceutica e ai ricoveri ospedalieri».

È l’era del politeismo alimentare.

È l’era del politeismo alimentare, che spinge le persone a mangiare di tutto, senza tabù, generando combinazioni soggettive di alimenti e anche di luoghi ove acquistarli, neutralizzando ogni ortodossia alimentare. È quanto emerge dal Primo Rapporto Censis/Coldiretti sulle abitudini alimentari degli italiani, dal quale si evidenzia che a prevalere è un politeismo fatto di combinazioni soggettive di luoghi di acquisto dei prodotti e relative diete alimentari, e la crisi recente ha rinforzato questa dinamica dei comportamenti sociali. Il rapporto con il cibo è una dimensione sempre più soggettiva, espressione dell’io che decide e che, a partire dalle proprie preferenze, abitudini, prassi e aspettative, nonché dalle risorse di cui dispone, definisce il contenuto del carrello e della tavola. Non esiste il Mcmondo che come un Grande Fratello indirizza i carrelli della spesa, esistono consumatori che, con una miscela originale di motivazioni e obiettivi, definiscono una propria specifica combinazione di alimenti e luoghi di acquisto, tanto da poter dire che il modello alimentare prevalente è in realtà un patchwork di opzioni che spesso, in linea di principio, possono anche apparire contraddittorie. Ad esempio: tra le persone che dichiarano di acquistare regolarmente prodotti Dop e Igp - comportamento che denota grande attenzione alla qualità - una quota non lontana da un terzo acquista regolarmente anche cibi precotti, addirittura più di due terzi acquistano regolarmente scatolame, e oltre tre quarti surgelati; tra coloro che acquistano regolarmente prodotti dell’agricoltura biologica, circa tre quarti acquistano anche surgelati, circa due terzi anche scatolame, e una percentuale simile prodotti con marchio del distributore; tra gli acquirenti regolari di prodotti del commercio equo e solidale, una nettissima maggioranza acquista i prodotti a marchio commerciale del distributore, oltre tre quarti acquista prodotti surgelati e oltre due terzi scatolame. Addirittura si recano presso i fast-food: il 27% degli acquirenti abituali di prodotti del commercio equo e solidale, il 26,7% degli acquirenti abituali di frutta e verdura da agricoltura biologica, il 22,6% degli acquirenti di prodotti Dop e Igp, e il 21,6% di coloro che acquistano direttamente dal produttore. «Il politeismo alimentare è il prezzo che paghiamo agli effetti della globalizzazione» - ha affermato il presidente della Coldiretti Sergio Marini, sottolineando che «emergono però tre linee di tendenza chiare, come la ricerca della combinazione ottimale tra qualità, sicurezza e prezzo, la percezione della responsabilità sociale e ambientale che comporta ogni atto di acquisto, e il rapporto tra il cibo e il territorio con il riconoscimento del valore dell’identità territoriale delle produzioni». Per soddisfare questi nuovi bisogni, la Coldiretti sta promuovendo un progetto per una filiera agricola tutta italiana attraverso la rete di consorzi agrari, cooperative, farmer market, agriturismi e imprese agricole, per offrire prodotti alimentari del territorio firmati dagli agricoltori che garantiscono la sostenibilità ambientale e sociale e la qualità al giusto prezzo.

Lo spuntino è un must per 2 italiani su 3.

Due italiani su tre non rinunciano allo spuntino, che si fa spazio tra il pranzo e la cena nelle abitudini degli italiani. È quanto emerge dal Primo Rapporto Censis/Coldiretti sulle abitudini alimentari degli italiani, dal quale sono si evidenzia che il 62,3% degli italiani lo fa alla mattina, il 63,8% il pomeriggio e il 52,2% sia alla mattina che al pomeriggio. A fare lo spuntino sono soprattutto le donne, i più giovani, i single e i residenti al Sud. Frutta, yogurt, cracker e, al mattino, anche cornetto, brioche e merendine sono gli alimenti che compongono in prevalenza gli spuntini. Con l’affermarsi dello spuntino tendono ad assomigliarsi il pranzo e la cena, con la pasta come unica differenza evidente, molto più presente sulle tavole degli italiani a pranzo. Posto pari a 7 per ogni settimana il numero di pranzi, la frutta, il pane e la verdura sono presenti 5 volte, la pasta 4,6 volte su 7, la carne 3 volte, mentre il dolce è sulla tavola per 2 pranzi a settimana, come il riso e il pesce. Tra le bevande, invece, il vino è presente in poco meno di 3 pranzi settimanali, le bevande gassate meno di 2 volte, la birra poco più di una volta alla settimana. Le cene hanno caratteristiche non molto diverse dai pranzi, perché per 5 volte alla settimana gli italiani dichiarano di mettere in tavola la verdura, la frutta e il pane; meno presenti sono la carne (2,8 volte su 7), la pasta (2,5), il pesce (meno di 2 volte), il dolce (anche questo meno di 2 volte) e il riso (1,6 volte). Vino, bevande gassate e birra sono presenti con la stessa intensità che a pranzo. Le differenze si assottigliano anche tra i giorni lavorativi e quelli festivi, durante i quali le uniche trasgressioni che gli italiani si concedono riguardano il vino e il dolce, presenti con maggiore frequenza.

Per 2,1 milioni di italiani pasta a pranzo e a cena 7 giorni su 7.

Sono circa 2,1 milioni gli italiani che dichiarano di mangiare sempre, a pranzo e a cena, sette giorni su sette, dal lunedì alla domenica, la pasta. Sono oltre 17 milioni gli italiani che vanno pazzi per il pane, 14,7 milioni quelli che mangiano sempre la verdura, 20,3 milioni gli italiani che mangiano sempre frutta fresca, 500 mila la carne e 820 mila il dolce. È quanto emerge dal Primo Rapporto Censis/Coldiretti sulle abitudini alimentari degli italiani, dal quale sono individuabili i «folli» dei vari alimenti, cioè coloro che dichiarano di mangiarli sempre a pranzo e/o a cena. Ci sono poi gli italiani che non mettono mai in tavola certi alimenti, così come alcuni che tendono a non prenderli in considerazione per il pranzo, oppure per la cena. Attualmente 430 mila italiani dichiarano di non mangiare mai, né a pranzo né a cena, né durante i giorni feriali né tantomeno nei week-end, la pasta; 930 mila non mangiano mai il pane, quasi 1,8 milioni non hanno rapporti con il riso, quasi 1,2 milioni non mangiano mai la carne, oltre 3,1 milioni dichiarano di non mettere mai in tavola il pesce, 370 mila non mangiano mai la verdura, infine più di 1 milione di italiani non mangiano mai la frutta. Il dolce non è mai presente nel piatto di 6,7 milioni di italiani. Riguardo alle bevande, 13,5 milioni non bevono mai a pranzo o a cena il vino, 19,2 milioni non bevono la birra e 19,3 milioni non bevono mai le bevande gassate.

Per il 25% degli italiani più frutta se costasse meno.

Circa un quarto degli italiani mangerebbe più frutta se costasse un po’ meno, e circa un quinto farebbe la stessa cosa con la verdura e gli ortaggi. È quanto emerge dal Primo Rapporto Censis/Coldiretti sulle abitudini alimentari degli italiani, dal quale si evidenzia come rispetto al dualismo tra grande distribuzione e negozi tradizionali, giocato sul prezzo e sul servizio incorporato nei beni, spicca la crescita degli acquisti diretti dal produttore, inclusi i mercati del contadino, che vengono percepiti come una soluzione che risponde ad alcune esigenze forti: il prezzo conveniente, la genuinità e la sicurezza del prodotto. Nel 2009 due italiani su tre (67%) hanno acquistato almeno una volta direttamente dal produttore agricolo (in azienda o nei farmer market), la forma di distribuzione commerciale che ha registrato la maggiore crescita nell’anno battendo nell’alimentare negozi e ipermercati, grazie a un incremento dell’11% del valore delle vendite, per un totale stimato in 3 miliardi di euro. «Si tratta - ha affermato la Coldiretti – di un fenomeno che concilia la necessità di risparmiare con quella di garantirsi la sicurezza del cibo».

L’80% degli italiani mangia fuori per trasgredire: ai pasti fuori casa va circa un terzo della spesa alimentare complessiva. Oltre l’80% degli italiani mangia almeno una volta alla settimana fuori casa, presso un esercizio pubblico, e a farlo in misura maggiore sono i giovani (93%) e i residenti al Nord-Est (88,3%). È quanto emerge dal Primo Rapporto Censis/Coldiretti sulle abitudini alimentari degli italiani, dal quale si evidenzia che tra le motivazioni della scelta di mangiare fuori casa, oltre a quelle ormai classiche (le esigenze lavorative e quelle ludiche, di convivialità), spicca una nuova ragione, piuttosto originale: la scelta di mangiare fuori diventa l’occasione per l’esercizio di una libertà rispetto ai canoni salutisti che ormai incombono come riferimenti centrali nel determinare la dieta delle persone. Infatti, nella scelta di cosa mangiare quando si pranza o si cena al ristorante o in un altro locale pubblico, la considerazione dei valori nutrizionali pesa in misura nettamente minore rispetto a quando si mangia in casa (il 29,7% in casa, il 14,9% fuori casa). «La spesa fuori casa rappresenta oggi - ha concluso la Coldiretti - un terzo della spesa alimentare complessiva degli italiani, con gli acquisti di alimentari e bevande che ammontano complessivamente a 215 miliardi di euro all’anno, dei quali 144 miliardi a casa e 71 miliardi per mangiare fuori».

La spesa è ancora donna.
È oltre il 61% delle donne a prendere le decisioni relativamente alla spesa, un dato che rimette al centro una verità troppo spesso rimossa: nell’organizzazione della vita familiare, la spesa è in capo alle donne. È quanto emerge dal Primo Rapporto Censis/Coldiretti sulle abitudini alimentari degli italiani, dal quale si evidenzia che per la maggioranza degli italiani la spesa ha frequenza settimanale (60,7%); quasi il 27% delle famiglie, però, effettua acquisti giornalieri e il 10% circa una volta al mese. La frequenza quotidiana della spesa alimentare familiare riguarda nel Nord-Ovest il 17,4% della popolazione, nel Nord-Est il 22,8%, al Centro il 29,6% e al Sud quasi il 35%. La frequenza settimanale riguarda invece quote progressivamente decrescenti di famiglie dal Nord al Sud. Il 74,6% degli intervistati dichiara che tra gli aspetti che influenzano la scelta dei prodotti alimentari prevale la provenienza dal proprio territorio, aspetto che presumibilmente viene visto come una garanzia rispetto alla qualità e alla sicurezza. Questa convinzione è più forte tra i residenti al Sud (78,8%). «Oggi - secondo la Coldiretti - solo carne bovina, ortofrutta fresca, uova, miele, latte fresco, pollo, passata di pomodoro ed extravergine di oliva hanno l’obbligo di indicare l’origine, ma ancora molto resta da fare e l’etichetta resta anonima per circa il 50% della spesa, dai formaggi ai salumi, dalla pasta ai succhi di frutta. Colmare questo ritardo è una grande responsabilità nell’interesse degli imprenditori agricoli, ma soprattutto dei consumatori e della trasparenza e competitività dell’intero sistema Paese».

Dal dopoguerra ad oggi gli italiani hanno modificato profondamente la propria dieta come dimostra l’aumento del 300 per cento dei consumi di carne che si è verificato negli ultimi 60 anni. E’ quanto afferma la Coldiretti nel sottolineare che ad aumentare in modo formidabile è stato anche il consumo di frutta e verdura mentre è diminuito quello di pane, pasta e vino che si è ridotto di oltre un terzo. Il cambiamento - sottolinea la Coldiretti - ha riguardato anche gli aspetti qualitativi dell’alimentazione come il passaggio dalla pasta fatta a mano a quella industriale, la crescita della carne bovina rispetto a quella di pollo, l’arrivo di nuove varietà di frutta come il kiwi negli anni ’80, l’affermarsi dell’extravergine di oliva nei confronti del lardo e strutto presenti a nord dal dopoguerra e del successivo boom della margarina. Negli ultimi 60 anni sono aumentate - continua la Coldiretti - del 56 per cento le chilocalorie portate in tavola mediamente ogni giorno dagli italiani. Profondi cambiamenti si sono verificati - precisa la Coldrietti - anche dal punto di vista economico con una progressiva riduzione dell’incidenza della spesa alimentare sui consumi totali degli italiani che è passata dal 45 per cento del 1950 al 15 per cento del primo decennio del ventesimo secolo. In questo ultimo periodo secondo il rapporto Censis/Coldiretti cresce l’attenzione alla qualità, alla sicurezza e all’impatto eco sociale. Una tendenza alla quale è in grado di rispondere l’agricoltura italiana che dal dopoguerra è diventata leader a livello internazionale con primati sul piano qualitativo, ambientale e sanitario. L'agroalimentare Made in Italy ha conquistato nel 2009 la leadership nei prodotti tipici in Europa con 202 riconoscimenti, il maggior numero di imprese biologiche e il primo posto nella sanità e nella sicurezza alimentare, con un record del 99 per cento di campioni con residui chimici al di sotto dei limiti di legge. Il modello agricolo italiano è vincente nel mondo dove ha conquistato primati nella qualità, tipicità e nella salubrità delle produzioni, ma anche - conclude la Coldiretti - nel valore aggiunto per ettaro di terreno, ovvero la ricchezza netta prodotta per unità di superficie dall'agricoltura italiana, che è oltre il triplo di quella Usa, doppia di quella inglese, e superiore del 70 per cento di quelle di Francia e Spagna.

Chagas: la lotta contro una malattia silenziosa


Angela vive a Genareros, una comunità indigena nella regione di Arauca, in Colombia. Ad aprile, due dei suoi sette figli hanno completato il trattamento contro il Chagas, una malattia trasmessa da un insetto comune nelle aree rurali dove la gente vive in case fatte di argilla e paglia. Appena i suoi due figli minori, Yosney e Maryeli, hanno terminato la cura, Angela ha scoperto che altri due avevano contratto la malattia. La malattia del Chagas è endemica in molti Paesi dell’America Latina. In Colombia, Arauca è una delle regioni più colpite. La malattia è causata dal parassita trypanosoma cruzi e trasmessa principalmente attraverso la puntura di un parassita che succhia il sangue noto nel Paese come “pito”. Le persone colpite dalla malattia possono vivere per anni senza avvertire alcun sintomo. Se il Chagas non viene curato può però portare seri problemi di salute - soprattutto complicazioni cardiache e intestinali - e persino la morte.

Portare la lotta contro il Chagas nei programmi di assistenza sanitaria di base

A fine 2009, Medici Senza Frontiere ha incluso lo screening per il Chagas e la relativa cura nei propri servizi medici primari già erogati attraverso cliniche mobili ad Arauca, una regione colpita dal conflitto col vicino Venezuela. Per la prima volta MSF ha portato la cura per il Chagas in una zona di conflitto.

Si tratta di una vera sfida, perché il trattamento richiede un controllo costante per un periodo di due mesi e c’è sempre il rischio di non essere in grado di raggiungere una comunità a causa dell’insicurezza o perché un gruppo armato ha bloccato il traffico stradale nella regione” – ha detto Patrick Swartenbroekx, coordinatore MSF ad Arauca.

La prima comunità sottoposta allo screening è stata quella di Genareros, dove Angela vive con i suoi sette figli. Dei 97 campioni di sangue prelevati da bambini di età compresa tra i nove mesi e i 18 anni, 11 sono risultati positivi.

Ci ha stupiti l’aver trovato un tasso così alto nella sola Genareros. Fortunatamente, non abbiamo riscontrato lo stesso risultato quando abbiamo esteso lo screening ad altre comunità” – ha detto Rafael Herazo, responsabile medico del progetto di MSF ad Arauca.

Sessanta giorni di terapia per sconfiggere la malattia

Fino a oggi, il team di MSF ad Arauca ha raccolto 1.617 campioni di sangue in 10 diverse comunità e ha completato i test di laboratorio su 514 campioni. I risultati di laboratorio hanno dimostrato che 1 persona su 28 è positiva al Chagas. I malati vengono sottoposti a un check-up prima di iniziare il trattamento che dura due mesi. Questo è importante per verificare se i pazienti hanno già sviluppato la malattia. “Se la persona ha già sviluppato, ad esempio, una seria complicazione cardiaca, possiamo fare poco per curare la malattia”, continua il dott. Herazo.

Durante la terapia, i medici di MSF hanno visitato gli abitanti di Genareros una volta a settimana. Poiché gli effetti collaterali sono abbastanza comuni, è fondamentale controllare e incoraggiare i pazienti a rispettare la cura.

Le persone ci dicono: “il mio bambino stava bene, poi gli avete dato queste medicine e sono iniziate le eruzioni cutanee, il dolore alle gambe…”, per questo è indispensabile il lavoro degli health promoter che visitano i pazienti e le loro famiglie e ogni volta ricordano che quella del Chagas è una malattia silenziosa e mortale. Insistono su quanto sia importante continuare la cura e spiegano che gli effetti collaterali andranno via. “Se si interrompe la terapia, il bambino può avere seri problemi di cuore una volta adulto; non potrebbe lavorare nei campi, camminare, si sentirebbe sempre stanco e potrebbe persino morire”, spiega Rafael Herazo.

Dopo la terapia restano altre sfide

Attualmente, tutti gli undici bambini di Genareros a cui era stato diagnosticato il Chagas hanno terminato la cura con successo. Tra un anno, Yosney e Maryeli faranno un altro test per confermare che sono completamente guariti. Dal momento che continuano a vivere nelle stesse case dove possono trovarsi i “pito” - così comuni a Genareros e nelle comunità indigene ad Arauca - rischiano di infettarsi nuovamente. MSF sta spingendo le autorità sanitarie ad Arauca a impegnarsi in disinfestazioni regolari, una misura di controllo essenziale per ridurre la trasmissione del Chagas ed evitare la reinfezione.

I 60 giorni di cura, gli effetti collaterali, tutta l’attività di sensibilizzazione e le visite alla comunità risulteranno vani se nelle case continueranno ad annidarsi i parassiti e la gente sarà sempre a rischio di nuove infezioni. Stiamo facendo pressioni sulle istituzioni sanitarie per rafforzare il controllo del vettore e contemporaneamente stiamo dimostrando che curare la malattia è possibile”, conclude il Dott. Herazo.

Guarda la galleria fotografica >>

Fonte:Medici Senza Frontiere

mercoledì 19 maggio 2010

Greenpeace: accordo storico per proteggere le foreste boreali.


Le foreste primarie sono una delle risorse naturali più vitali del pianeta. Ospitano circa i due terzi della biodiversità, regolano i cicli dell'acqua e stabilizzano il clima.

Firmato un accordo senza precedenti che renderà possibile la protezione di settantadue milioni di ettari di foresta canadese. Lo annunciano Greenpeace e ventuno aziende dell’Associazione Canadese dei Prodotti Forestali, insieme ad altre otto associazioni ambientaliste.

Il Canadian Boreal Forest Agreement (CBFA), una volta messo in pratica, permetterà la conservazione di estese aree di foresta boreale, proteggerà specie minacciate d’estinzione come il caribù e garantirà alle aziende partecipanti una fetta di mercato sostenibile e competitivo. Le aziende che hanno sottoscritto l’accordo CBFA si impegnano a rispettare rigidi standard ambientali di gestione forestale di un’area grande due volte la Germania.

«Dopo sette anni di pressioni sul mercato internazionale, denunce e azioni dirette abbiamo ottenuto l’accordo più ambizioso di tutti i tempi per la conservazione delle foreste boreali – afferma Chiara Campione, responsabile della campagna Foreste di Greenpeace Italia – Un passo da gigante nel raggiungimento dell’obiettivo Deforestazione Zero in Canada e nel mondo».

Alcuni degli impegni più importanti previsti dall’accordo sono lo sviluppo di altissimi standard per la gestione delle aree forestali, la creazione di una rete di aree protette per il recupero del caribù e il sostegno economico e il rispetto dei diritti di proprietà delle comunità forestali (Comunità aborigene e First Nation).


In Canada, e nel resto del mondo, Greenpeace ha lavorato a stretto contatto con altre associazioni ambientaliste come Canopy e ForestEthics per mobilitare e sensibilizzare grandi aziende e multinazionali del legno e della carta.

«C’è ancora tanto lavoro da fare per verificare la reale applicazione di quest’accordo, ma alla fine in Canada nuove e vastissime aree di foresta saranno protette. Queste foreste – continua Campione - conservano miliardi di tonnellate di carbonio vitali per la mitigazione del cambiamenti climatici».

Fonte:Greenpeace

Tribù incontattate minacciate dalle dighe



Una grave minaccia incombe su numerosi gruppi di Indiani incontattati dell’Amazzonia brasiliana. Due grandi complessi idroelettrici – la diga Santo Antônio e la diga Jirau – sono infatti in costruzione sul fiume Madeira, proprio nei pressi del territorio abitato dalle tribù isolate, del tutto ignare della devastazione che interesserà gran parte della loro terra.

La presenza di Indiani incontattati che vivono e cacciano nell’area è stata confermata anche da una recente spedizione del FUNAI il dipartimento agli affari indigeni del governo brasiliano.

Sono almeno quattro le tribù di Indiani isolati nell’area coinvolta dal progetto delle dighe: due sono conosciute con il nome di Mujica Nava mentre gli altri sono i gruppi ancora incontattati dei Jacareuba/Katawixi.

La costruzione di nuove strade e la massiccia immigrazione veicolate dal progetto porteranno a una rapida distruzione della foresta indigena.

Con l’ingresso di estranei nell’area arriveranno anche malattie come l’influenza e il morbillo verso cui gli Indiani hanno scarse difese immunitarie. Come spesso accaduto nel passato, il contatto potrebbe risultare fatale per gran parte dei membri delle tribù.

Il rapporto del FUNAI riferisce che il rumore provocato dai lavori di costruzione della diga ha probabilmente già spinto alcuni degli Indiani incontattati a lasciare la loro terra e a muoversi verso un territorio dove operano illegalmente numerosi cercatori d’oro e dove sono molto diffuse malaria ed epatite.

Oltre a minacciare gli Indiani isolati, le dighe danneggeranno molti altri popoli indigeni che vivono nell’area e che non sono stati adeguatamente consultati prima dell’inizio dei lavori. Domingos Parintintin, della tribù dei Parintintin, ha dichiarato: “La nostra terra è ancora inviolata. Ci auguriamo che questo progetto si fermi perché saranno i nostri figli a soffrirne. Non ci saranno pesce o selvaggina a sufficienza per tutti”.

A costruire la diga Jirau è la compagnia francese GDF Suez, che è in parte di proprietà del governo francese. Una coalizione di Ong tra cui Survival, Kaninde, Amici della Terra-Amazônia Brasileira, International Rivers e Amazon Watch ha protestato presso le autorità brasiliane e la GDF Suez e ha chiesto che sia fermata la costruzione delle dighe.

Durante l’assemblea generale annuale della compagnia, un’azionista della GDF Suez ha posto al presidente della compagnia Gérard Mestrallet alcune domande sulle popolazioni di Indiani isolati che vivono nei pressi della diga Jirau. Mestrallet ha precisato che il Presidente Lula appoggia la diga e che “ se c’è qualcuno che sa cosa è bene per la popolazione brasiliana e allo stesso tempo può pensare alla salvaguardia degli Indiani locali, questi è certamente il Presidente Lula”.

Ma dopo le recenti dichiarazioni di Lula sulla diga Belo Monte sul fiume Xingu, che il presidente sostiene andrà avanti nonostante la massiccia opposizione, Megaron Txucarramãe, portavoce degli indigeni Kayapó, ha dichiarato che “Lula ha dimostrato di essere il nemico numero uno degli Indiani”.

La costruzione delle dighe Santo Antônio e Jirau deve essere sospesa” ha commentato il direttore generale di Survival International Stephen Corry. “Se non sarà così, molti Indiani vedranno le loro terre invase e le loro risorse naturali saccheggiate. Gruppi isolati potrebbero essere decimati o addirittura spazzati via. E il governo brasiliano sarà ritenuto responsabile di tale tragedia.

Fonte:Survival