venerdì 6 agosto 2010

Amnesty International chiede al governo della Georgia di garantire un futuro agli sfollati


"Ho passato 20 anni della mia vita in questa stanzetta, in condizioni terribili. Io e mio marito stiamo ancora aspettando e nessuno ci ha fatto sapere niente. Non è detto che abbia molto tempo ancora davanti a me, ma voglio passare almeno il resto della mia vita in condizioni decenti".
(Izolda, 69 anni, residente in un centro collettivo di Tbilisi, capitale della Georgia)

Le autorità della Georgia devono fare ben più del minimo indispensabile per fornire alloggi adeguati, opportunità di lavoro e accesso all'assistenza sanitaria alle persone sfollate a causa dei conflitti degli anni Novanta e della guerra con la Russia dell'agosto 2008.

È quanto ha dichiarato Amnesty International, in un rapporto dal titolo "In sala d'attesa: i profughi interni della Georgia", che documenta come migliaia di persone sfollate a causa dei conflitti abbiano ancora oggi difficoltà di accesso ai servizi fondamentali.

"Agli sfollati non basta solo un tetto sulle loro teste. Hanno bisogno che il governo garantisca loro un impiego, l'accesso all'assistenza sanitaria e alla previdenza sociale. Inoltre, devono essere consultati e messi in grado di fare le scelte che hanno a che fare con la loro vita" - ha dichiarato Nicola Duckworth, direttrice del Programma Europa e Asia centrale di Amnesty International.
"Gli sfollati hanno il diritto di ritornare alle loro case in dignità e sicurezza. Il governo ha anche un obbligo nei confronti di chi non può o non vuole farlo: l'integrazione o il reinsediamento in altre zone del paese".

Circa il 6 per cento della popolazione georgiana, 246.000 persone, è costituito da profughi interni. Di questi, 220.000 hanno lasciato le loro case durante i conflitti dell'inizio degli anni Novanta.

Altre 128.000 persone sono fuggite dall'Ossezia del Sud e dalla Gola di Kodori in Abkhazia durante e dopo la guerra russo-georgiana dell'agosto 2008. La maggior parte di esse è rientrata nelle proprie abitazioni, ma quasi 26.000 non ne hanno avuto la possibilità né l'avranno nel futuro immediato.

Nel 2007, il governo georgiano ha iniziato a progettare e attuare programmi per fornire alloggi permanenti agli sfollati, grazie all'assistenza internazionale.

Tuttavia, molti di coloro che hanno lasciato le loro case quasi due decenni fa vivono ancora in ospedali o accampamenti militari privi delle più elementari condizioni igieniche e di riservatezza. Alcuni dei nuovi insediamenti sono collocati in aree rurali che non hanno infrastrutture essenziali.

L'assistenza del governo deve ancora raggiungere coloro che vivono insieme ad altri familiari o in case in affitto. Molti di essi si lamentano di non essere stati consultati sulle misure che riguardano direttamente le loro vite.

"Tutti questi sfollati patiscono ancora le conseguenze della guerra. Hanno bisogno di soluzioni durature e ne hanno bisogno presto, in modo da poter ricostruire le loro vite"- ha commentato Duckworth.

Tra gli sfollati, la percentuale di disoccupazione è alta e non è stato adottato alcun programma governativo complessivo che affronti questo problema.

Le aspre condizioni di vita e la povertà minacciano la salute degli sfollati; l'assenza di informazioni e i costi delle prestazioni sanitarie rendono ancora più difficile ricevere cure mediche.

"Il governo georgiano ha preso misure importante, ma la soluzione dei problemi abitativi deve andare di pari passo con quelle riguardanti le cure mediche, il lavoro e le opportunità di vita. Questo è l'unico modo per integrare pienamente le decine di migliaia di suoi cittadini che vivono ancora in un limbo".

Iza, sfollata in un centro collettivo di Kutaisi, ha detto ad Amnesty International:

"Diciassette anni fa, quando è scoppiata la guerra, studiavo lingue straniere all'università statale. Non ho mai terminato. Ora mio figlio fa le superiori, ma non ho alcun mezzo per pagargli l'università. Non posso più ricostruire il mio futuro, forse non riuscirò mai più a trovare un lavoro, ma chiedo al governo almeno di dare maggiori prospettive ai miei figli, così che loro abbiano un futuro migliore".

Fonte: Amnesty International

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