venerdì 12 marzo 2010

Mal’aria industriale 2010. Il 75% dei grandi impianti industriali è ancora senza Autorizzazione Integrata Ambientale.


Dal 2006 al 2007 inquinamento atmosferico in forte aumento: +15% di Idrocarburi policiclici aromatici, + 6% di diossine, +5% di cadmio Nonostante la procedura d’infrazione europea avviata nel 2008, il 75% dei grandi impianti industriali è ancora senza Autorizzazione Integrata Ambientale. Legambiente: “Il ministero dell’Ambiente istituisca una task force per recuperare i ritardi della Commissione AIA e rafforzi la struttura dell’Ispra”.

In Italia è boom di inquinamento atmosferico prodotto da fonti industriali. Tra il 2006 e il 2007, infatti, sono saliti a +15% gli Ipa (idrocarburi policiclici aromatici), a +6% le diossine e i furani, a +5% cadmio e +3% cromo. E’ con questi dati che l’industria italiana si conferma come la principale fonte di microinquinanti scaricati in atmosfera, producendo il 60% del cadmio totale, il 70% delle diossine, il 74% del mercurio, l’83% del piombo, l’86% dei Policlorobifenili (PCB), l’89% del cromo, fino al 98% dell’arsenico. Tutti inquinanti che sembrano finiti nell’oblio ma che, invece, contribuiscono in modo molto pesante a rendere insalubre l’aria respirata nei luoghi di lavoro e nei centri urbani limitrofi alle aree industriali.

E’ questo l’allarme lanciato da Legambiente con Mal’Aria industriale 2010, il libro bianco sull’inquinamento atmosferico da attività produttive che denuncia il trend degli inquinanti industriali in aumento. Cifre preoccupanti che non hanno destato lo stesso allarme dell’inquinamento causato dal traffico privato poiché, a parte qualche rara eccezione come il polo siderurgico di Taranto, la fonte industriale, non è ancora entrata nell’immaginario collettivo come un problema da affrontare.

Eppure l’industria contribuisce in modo molto sensibile alla Mal’Aria del Paese: con il 26% di PM10 emesso a livello nazionale, un livello di emissioni superiore a quello prodotto dal trasporto stradale (che incide sul totale solo per il 22%, ma che diventa la prima fonte di emissione nei centri urbani). Oltre alle polveri sottili, la fonte industriale scarica, poi, in atmosfera il 79% degli ossidi di zolfo (SOx) - ormai insignificanti nel settore dei trasporti grazie alle specifiche sempre più stringenti sulle concentrazioni di zolfo nei carburanti – e il 23% degli ossidi di azoto (NOx), precursore della produzione del PM10 secondario e dell’ozono, inquinante tipicamente estivo.

Passando dai macro ai microinquinanti, il contributo delle attività produttive denunciato da Mal’aria Industriale si conferma come davvero rilevante: ad eccezione del benzene (le emissioni industriali contribuiscono “solo” per il 15% rispetto al totale), degli IPA (34%) e del nichel (35%) infatti, l’industria italiana è la principale fonte di microinquinanti scaricati in atmosfera, con almeno il 60% del contributo totale come nel caso del cadmio, fino ad arrivare al 98% nel caso dell’arsenico.

Per ridurre l’impatto ambientale delle attività produttive, uno strumento fondamentale è costituito dall’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), prevista dal decreto legislativo 59/2005 di recepimento della direttiva europea IPPC (Integrated Pollution Prevention and Control) sulla prevenzione e il controllo integrato dell’inquinamento industriale. Ma il rilascio dei pareri da parte della Commissione AIA nazionale e l’emanazione dei decreti di autorizzazione da parte del ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare procede con enorme lentezza. Non è servita a molto, neanche, la procedura d’infrazione scattata nel maggio 2008 per non aver rispettato la scadenza del 30 ottobre 2007 prevista dalla direttiva europea per rilasciare le nuove autorizzazioni a tutti gli impianti industriali e adeguare gli impianti alla normativa europea.

Secondo le elaborazioni di Legambiente su 191 impianti industriali solo per 41 è stata rilasciata l’AIA (21%), mentre per 143 il procedimento non si è concluso e per 7 è in corso sia la VIA che l’AIA. Tra i 41 impianti che hanno ottenuto l’AIA (10 nuovi e 31 già esistenti), compaiono molte centrali termoelettriche (32) e pochi impianti “complessi” (4 impianti chimici e 3 raffinerie di petrolio). Nei 143 impianti ancora sprovvisti di AIA (pari al 75% del totale dei siti da autorizzare) ci sono 85 centrali termiche ma soprattutto 39 impianti chimici (il 90% di quelli in procedura di AIA) (tra questi alcuni impianti nel sito industriale di Priolo e il polo di Mantova), 17 raffinerie (l’85% del totale da autorizzare) - tra cui quelle di Gela, Milazzo, Priolo e Falconara - e le 2 grandi acciaierie dell’Ilva a Taranto e della Lucchini a Piombino (Li). Insomma un bilancio tutt’altro che rassicurante, sia nei numeri che nel dettaglio degli impianti, senza considerare che alle Autorizzazioni nazionali rilasciate dal Ministero si aggiungono quelle regionali e provinciali concesse dagli enti locali alle migliaia di impianti più piccoli.

“Il Ministero dell’ambiente - dichiara Stefano Ciafani, responsabile scientifico di Legambiente - istituisca urgentemente una task force di esperti per supportare la Commissione AIA, rivelatasi fino ad oggi inadeguata al ruolo strategico che le compete per ridurre l’impatto ambientale dei grandi impianti industriali del nostro Paese, e stanzi risorse economiche adeguate a potenziare in tempi brevi con personale, mezzi e strutture chi gioca un ruolo fondamentale sui controlli degli impianti industriali e cioè l’Ispra che versa in condizioni inaccettabili”.

Secondo Legambiente il ministero deve intervenire in modo concreto per rivedere i limiti di emissione delle diossine per tutti gli impianti industriali oggi non linea con quanto previsto con la normativa internazionale (Protocollo di Aarhus).

“I passi in avanti degli ultimi decenni per ridurre l’inquinamento industriale - conclude Ciafani - non sono stati sufficienti a salvaguardare la salute dei cittadini che vivono nei pressi di stabilimenti industriali. È per questo che Legambiente chiede al governo italiano di garantire adeguati finanziamenti per l’attivazione di studi epidemiologici per approfondire gli impatti sanitari derivanti dall’esposizione agli inquinanti emessi dalle lavorazioni industriali. Le Regioni italiane devono investire risorse economiche adeguate per quelle Agenzie regionali per la protezione ambientale che in due terzi del Paese non sono in grado di assolvere i compiti sui controlli che gli sono stati assegnati per legge. L’industria, infine, deve investire in ricerca, sviluppo e innovazione tecnologica, perché solo così potrà ridurre gli impatti ambientali delle sue lavorazioni e garantirsi quel valore aggiunto necessario per competere in un mercato globalizzato”.

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