di Michele Paris
Mentre la comunità
internazionale era intenta a seguire lo svolgimento dell’aggressione israeliana
nella striscia di Gaza, a inizio settimana l’esercito ribelle che opera nelle
regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo è entrato pressoché indisturbato
nella importante città di Goma, popolata da un milione di abitanti, prendendone
possesso di fronte ad un impotente contingente militare delle Nazioni Unite.
Subito dopo, migliaia di
poliziotti e soldati dell’esercito regolare si sono uniti alle forze ribelli, i
cui leader, nonostante gli appelli internazionali, hanno annunciato di volersi
dirigere verso la capitale, Kinshasa, per costringere il presidente, Joseph
Kabila, a dimettersi e “liberare” così l’intero paese centro-africano.
Il prossimo immediato
obiettivo della milizia M23 sembra essere la città di Bukavu, capitale della
provincia Sud-Kivu situata sull’omonimo lago. Sotto il controllo dei ribelli
sarebbe già caduta la località di Sake, ad una trentina di chilometri da Goma,
dove giovedì sono stati registrati scontri con le forze armate. Secondo quanto
riportato mercoledì dalla Associated Press, nel corso di un raduno organizzato
dai ribelli presso lo stadio di quest’ultima città, più di duemila soldati e
700 poliziotti hanno consegnato le loro armi all’M23, mentre a Bukavu la
popolazione è già scesa nelle strade per manifestare contro il governo centrale
e a favore dei guerriglieri in arrivo.
I soldati dell’esercito
regolare sono rimasti invece in gran parte in attesa di ordini dalle autorità
di Kinshasa presso una località nelle vicinanze di Goma. I militari della
missione MONUSCO dell’ONU, a loro volta, non hanno potuto muovere un dito per
contrastare l’avanzata dei ribelli perché ciò non rientra nel loro mandato in
Congo.
Per venire a capo della
crisi, intanto, il presidente congolese Kabila si è recato nella capitale
dell’Uganda, Kampala, per incontrare il presidente del vicino Ruanda, Paul
Kagame, e discutere dell’emergenza in corso grazie alla mediazione del
presidente ugandese, Yoweri Museveni. Secondo alcuni media, visto l’aggravarsi
della situazione, Kabila sarebbe sul punto di accettare un confronto diretto
con i vertici dell’M23, cosa che si era sempre rifiutato di fare. Per il
momento, tuttavia, l’unica concessione ufficiale del presidente ai ribelli
sarebbe la promessa di valutare le loro richieste.
La nuova crisi in Congo è
stata discussa anche alle Nazioni Unite, dove martedì il Consiglio di Sicurezza
ha approvato all’unanimità una serie di sanzioni nei confronti dei leader dell’M23,
ai quali è stato chiesto di ritirarsi da Goma. Contemporaneamente, il Consiglio
di Sicurezza ha esortato i paesi vicini a interrompere l’appoggio garantito ai
ribelli, senza però nominare i due governi responsabili, quelli di Uganda e
soprattutto Ruanda, già accusati da un recente rapporto dell’ONU di fomentare
il caos in Congo, finanziando e fornendo armi clandestinamente all’M23 e alle
formazioni militari che lo hanno preceduto.
L’avanzata fin qui
inarrestabile di una milizia composta da non più di tremila uomini, e che è
stata spesso definita come disordinata e priva di disciplina, dipende, oltre
che dall’appoggio decisivo di Ruanda e Uganda, anche dalla diffusa impopolarità
del governo centrale, universalmente considerato inefficace e corrotto.
La ribellione nel Congo
orientale è di lunga data ma il cosiddetto gruppo M23 (ufficialmente CNDP o
Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo) è stato creato solo lo scorso
mese di aprile sotto la guida dell’ex generale dell’esercito regolare, Bosco
Ntaganda, nato in Ruanda e colpito fin dal 2006 da un mandato di cattura del
Tribunale Penale Internazionale per crimini contro l’umanità.
I membri di questa milizia
sono in gran parte soldati disertori ed ex appartenenti alle precedenti
organizzazioni ribelli che avrebbero dovuto essere integrati nelle forze armate
congolesi in base ad un accordo siglato con il governo di Kinshasa il 23 marzo
2009, da cui il nome del loro gruppo. I leader che hanno fondato l’M23 avevano
garantito il loro pieno appoggio alla candidatura del presidente Kabila nelle
discusse elezioni presidenziali del novembre 2011 ma la rottura è arrivata di
lì a poco, a loro dire a causa delle mancate promesse previste dall’accordo.
Il sostegno principale alle
formazioni ribelli che agiscono da tempo nelle regioni orientali del Congo è
garantito dal governo di etnia Tutsi del Ruanda, guidato da Paul Kagame. Già
nel 1996 e nel 1998 il regime di Kigali aveva contribuito ad alimentare
un’escalation di scontri e violenze nel paese vicino, tenendo nascosto il
proprio coinvolgimento mentre stava dispiegando migliaia di truppe oltre il
confine occidentale. Secondo il già citato rapporto dell’ONU, l’M23, così come
i suoi predecessori, non è soltanto un gruppo ribelle finanziato e armato dal
Ruanda ma addirittura un estensione dell’esercito ruandese, comandato dal
ministro della Difesa di Kigali.
La protezione offerta dal
Ruanda alle forze ribelli congolesi è legata in primo luogo al tentativo di
controllare il redditizio commercio delle ingenti risorse naturali conservate
nei territori orientali di questo travagliato paese. Questa strategia di
continua destabilizzazione del Congo, messa in atto dal presidente Kagame, è
stata resa possibile dal fatto che il Ruanda uscito dal genocidio del 1994 è
uno stretto alleato dell’occidente e, in particolare, degli Stati Uniti.
Solo recentemente, perciò,
la comunità internazionale ha iniziato a puntare il dito in maniera aperta
contro il regime di Kigali, accusato di manovrare forze ribelli che, secondo le
organizzazioni a difesa dei diritti umani, sono responsabili di massacri
etnici, stupri di massa, omicidi, torture, rapimenti e sfruttamento di
bambini-soldato.
Il motivo del cambiato
atteggiamento nei confronti del Ruanda, sottolineato anche dal recente invito
rivolto dagli Stati Uniti a Paul Kagame di porre fine al finanziamento dei
ribelli in Congo, non è dovuto soltanto alle aumentate pressioni
internazionali, ma anche a calcoli geo-strategici che riguardano un’area così
ricca di risorse naturali nel continente africano. In particolare, come hanno
messo in evidenza alcuni documenti diplomatici resi noti da WikiLeaks, gli
Stati Uniti vedono con crescente apprensione i legami economici sempre più
stretti tra il Ruanda e la Cina.
Il cambiamento di toni
dell’amministrazione Obama nei confronti del governo ruandese rivela dunque il
consueto cinismo che contraddistingue la politica estera americana, visto che
Kagame è stato per quasi due decenni un partner affidabile degli Stati Uniti,
nonostante siano da tempo note non solo le manovre del suo governo in Congo, ma
anche le responsabilità nello scatenamento del genocidio del 1994 e i crimini
contro l’umanità commessi dalle forze ribelli Tutsi, che l’attuale presidente
comandava, nel rovesciamento del precedente governo Hutu con l’appoggio
dell’esercito ugandese.
Mercoledì, in ogni caso,
Ruanda e Uganda hanno chiesto ai ribelli di ritirarsi da Goma e di interrompere
la loro offensiva. Il comunicato emesso da Kampala da Museveni e Kagame afferma
anche che i loro governi sono impegnati nelle trattative per il raggiungimento
di una tregua in Congo. I timori dei due sponsor dell’M23 sono legati sia ad
una possibile destabilizzazione totale del paese vicino sia alle conseguenze
che entrambi sarebbero costretti a pagare nei rapporti con l’Occidente in caso
di un’escalation incontrollata della crisi.
L’appello dei loro
protettori è stato però respinto dai leader dell’M23, tanto che il responsabile
del braccio politico del gruppo, Jean-Marie Runiga, l’altro giorno ha affermato
senza mezzi termini che Ruanda e Uganda non hanno alcun diritto di imporre il
loro volere sulla milizia ribelle. Runiga ha poi confermato la volontà dell’M23
di avanzare nel paese fino a quando il presidente Kabila non accetterà di
intraprendere un negoziato diretto.
Nel frattempo, il conto
della crisi continua ad essere pagato a caro prezzo dalla popolazione civile di
un paese che, a fronte di vaste riserve di diamanti, oro, cobalto, rame,
petrolio e legame, rimane uno dei più poveri e sottosviluppati del pianeta. In
questa regione dell’Africa centrale si scontrano infatti disparati interessi
che fanno capo ai paesi vicini e alle varie potenze internazionali, finendo per
alimentare perenni conflitti etnici, ribellioni e crisi di difficile soluzione
come quella attualmente in atto.
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