lunedì 23 novembre 2009

Le carceri uccidono in modo silenzioso i disgraziati reclusi, nell’indifferenza totale della classe politica.

Nelle carceri italiane muoiono in media 150 detenuti l’anno, dei quali un terzo circa per suicidio (1.005 casi accertati, dal 1990 ad oggi), un terzo per cause immediatamente riconosciute come “naturali”, e il restante terzo per “cause da accertare”, che indicano tutti i casi nei quali viene aperta un’inchiesta giudiziaria.
La morte di Stefano Cucchi, con l’emozione e l’indignazione seguita alla pubblicazione delle fotografie del suo corpo martoriato, ha avuto l’effetto di scoperchiare il “calderone infernale” delle morti in carcere, di far conoscere all’opinione pubblica un dramma solitamente relegato alla ristretta cerchia degli “addetti ai lavori”.
Con il Dossier “Morire di carcere” sono stati ricostruiti centinaia e centinaia di vicende di detenuti morti, citando fonti, luoghi, nomi e circostanze.


Guardando i reati per i quali la maggior parte delle persone è detenuta, ci rendiamo conto che le nostre galere non sono piene di rapinatori sanguinari o di pericolosi assassini., ma di disgraziati.

La stragrande maggioranza di loro sconta una pena per reati minori come furti, spaccio di stupefacenti tutti reati legati alla loro condizione di tossicodipendenti. Queste persone dovrebbero scontare la pena adeguata ed essere seguiti e rieducati, invece, nel paese in via di sviluppo, vengono rinchiuse nelle carceri e abbandonati a loro stessi, nonostante i proclami e i soldi investiti inutilmente dalla classe politica improduttiva e incompetente.

Ricordate i proclami per i braccialetti elettronici? Sembrava la panacea di tutti i problemi dei “criminali” disgraziati rinchiusi nelle carceri che avrebbero potuto tranquillamente vivere una vita normale ed essere controllati. Il fallimento di questo progetto dei braccialetti elettronici, che avrebbero dovuto "svuotare le carceri" rendendo "più agile" il nostro sistema penitenziario, risale al 2001 e porta la firma di due illustri membri dell’ allora governo Amato: l’ex ministro dell’Interno e l’ex Guardasigilli.

Furono loro infatti a firmare con la Telecom un’ "esclusiva" che ancora oggi, a otto anni di distanza, costa agli italiani 11 milioni di euro all’anno.

I numeri sono da presa in giro: i braccialetti elettronici anti evasione attualmente operativi sono infatti solo 10 e ci costano più di un milione di euro ciascuno. I conti li ha fatti Milano Finanza, il quotidiano dei mercati finanziari, secondo il quale "lo Stato spende 11 milioni di euro all’anno per applicare i braccialetti a una decina di detenuti agli arresti domiciliari".
Ed ecco allora la classe politica incompetente e affaristica, torna a progettare e realizzare altre case di detenzione per continuare a riempirli dagli invisibili disgraziati.

E in un paese in via di sviluppo dobbiamo prendere coscienza che il sistema carcerario, grazie alla classe politica affaristica e corrotta, non funziona e non ha mai funzionato. Questo lo dimostra il rapporto “Morire di carcere”, redatto da Ristretti Orizzonti, il giornale della Casa di Reclusione di Padova e dell’Istituto di Pena Femminile della Giudecca che dal 1998 cerca di dare voce ai detenuti e ai loro problemi. Il giornale mette in evidenza il fallimento totale delle carceri italiane: dal 2000 ad oggi sono morti in carcere 1.537 reclusi, di questi ben 547 si sarebbero tolti la vita. Secondo gli ultimi dati nel 2009 sono deceduti 154 prigionieri, di cui 63 per suicidio.

Non tutti i suicidi, però, sono stati catalogati come tali. Sempre secondo Ristretti Orizzonti, che ha raccolto le denunce e le testimonianze di molti familiari, dal 2002 fino ad oggi ci sono almeno trenta casi di morti sospette sulle quali sarebbe necessario indagare in maniera più approfondita.

Stefano Guidotti, 32 anni, che si sarebbe ucciso nel carcere di Rebibbia, a Roma, il primo marzo del 2002. Guidotti è stato trovato impiccato alle sbarre del bagno, ma le escoriazioni presenti sul viso, le macchie di sangue rinvenute sul pavimento e il materiale utilizzato per realizzare il cappio hanno insospettito i familiari e i carabinieri che si sono occupati delle indagini.

Sempre nel 2002 nel carcere di Bari ad “uccidersi” è Gianluca Frani, 31 anni, paraplegico. “Come può una persona su una carrozzina - si chiedono i parenti – riuscire ad impiccarsi al tubo dello scarico del water senza che nessuno si accorga di nulla?”.

Così come alla morte di F.M., 29 anni, affetto da problemi mentali, muore nella sua cella durante la notte. Era entrato in carcere due giorni prima, dopo essere stato fermato da una pattuglia di carabinieri perché evaso dalla struttura in cui era agli arresti domiciliari. Il direttore del carcere dichiara alla stampa che si è trattato di un malore, determinato dal fatto che il ragazzo era dedito all’uso di sostanze stupefacenti, ma le sue parole sono smentite con forza dai parenti e dal tutore del giovane carcerato. “Non era un drogato - afferma l’avvocato Pasquali - era solo un ragazzo con problemi comportamentali e mentali, che non sapeva distinguere il bene e il male, le situazioni di pericolo e le azioni malvagie”.
F.M. da bambino aveva subito un grave incidente stradale che gli aveva procurato una perdita di parte del lobo frontale del cervello, la sede della “capacità decisionale”. Un ragazzo, comunque, sano fisicamente, giovane, non dedito a droghe, la cui morte per malore “suona” in modo davvero strano.

Oppure la morte di Marcello Lonzi avvenuta il primo ottobre del 2003 nel penitenziario di Livorno. Il giovane, di soli 29 anni, sarebbe deceduto a causa di un infarto, dopo aver battuto la testa. La madre non crede a questa ricostruzione e sospetta si sia trattato di un omicidio, anche perché il corpo del figlio era coperto di lividi. Chiede al Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, un aiuto per impedire che “venga nascosta la verità”. Marcello Lonzi stava scontando una pena di otto mesi, per un tentato furto, ed era in attesa di usufruire dell’indulto.

Domenico Del Duca, 26 anni, fine pena nel 2007, muore il 23 dicembre presso l’ospedale Cotugno, dove era arrivato, in coma, il giorno prima, proveniente dal secondo istituto di pena della città. Sulla sua morte è sino ad oggi regnato il completo silenzio. Del Duca, sieropositivo, era ricoverato nel centro clinico del carcere da settembre. Proveniva da un anno di internamento nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Napoli, perché soffriva di disturbi mentali. La notte del 21 dicembre si è barricato in cella, per un motivo apparentemente banale, una sigaretta negata. Gli agenti di polizia penitenziaria decidono di fare irruzione e utilizzano gli idranti per riportare l’ordine. La cella viene inondata di acqua e ruggine, così come il suo occupante. Il ragazzo viene trasferito nella cella liscia, priva di ogni suppellettile, di un altro reparto. La mattina del 22 viene trovato in coma di primo grado dal medico di turno che ne dispone l’immediato ricovero in una struttura ospedaliera. Del Duca viene trasferito, sembra solo dopo alcune ore, presso l’ospedale Cotugno, specializzato per le patologie da Hiv, dove muore, il giorno successivo senza riprendere conoscenza. Il suo referto parla di morte causata da crisi cardio-respiratoria (polmonite fulminante?), ma sul corpo non è stata disposta alcuna autopsia, indispensabile per chiarire i fatti. Non risulta che la Procura di Napoli abbia aperto un’inchiesta, né che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ne abbia disposto una interna per verificare le modalità dell’intervento degli agenti ed eventuali responsabilità.

Mohamed El Mansouri, 30 anni, marocchino, si impicca nella sua cella della casa circondariale di Piacenza il 12 gennaio 2005 con l’elastico dei boxer. Si è suicidato nel giorno della ripresa del processo, per corruzione tra detenuti e guardie penitenziarie al carcere di Monza per introdurre alcol e droga, che lui stesso aveva in parte innescato con la sua denuncia. Il pm del processo monzese Flaminio Forieri, amareggiato per la tragica notizia, non collega necessariamente il suicidio alla vicenda di Monza. Ma, se di coincidenza si tratta, è senz’altro una coincidenza angosciante. Di certo c’è che l’extracomunitario si era fatto terra bruciata tra i detenuti dopo avere sporto la sua denuncia tanto che da Monza era stato trasferito prima ad Alessandria, poi a Cremona e poi ancora a Piacenza, perché tacciato di essere un “infame”.

Emanuela Fozzi, 26 anni, muore di varicella nel carcere di Rebibbia Femminile a Roma il 16 aprile 2005. La donna, malata di Aids, avrebbe contratto il virus della varicella e, proprio a causa del fisico debilitato e privo di protezioni, le sue condizioni di salute si sarebbero aggravate a tal punto da richiedere il ricovero urgente in ospedale. Tre mesi prima era stata dichiarata incompatibile con il carcere per le sue condizioni ma alla fine di aprile è morta. Nel carcere romano infatti sarebbe scoppiata una vera e propria epidemia: la malattia esantematica ha colpito 13 detenute, di cui tre ricoverate in tre ospedali di Roma, e due agenti penitenziari. “Quella donna non doveva essere in carcere - dice il Garante del Lazio per i diritti dei detenuti Angiolo Marroni - era stata dichiarata incompatibile con la detenzione, ma nulla è stato fatto. La responsabilità è di chi non ha ottemperato alla dichiarazione di incompatibilità con il regime carcerario”.

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