La crisi sta cambiando il paradigma con il quale l’Europa guarda a se stessa. Non più solo come luogo delle opportunità dentro una visione competitiva, non più solo come contesto di rigorosi vincoli ragionieristici di bilancio, ma ancor prima come irreversibile processo di condivisione del comune destino di popoli e nazioni.
Prima che la crisi dimostrasse tutta la sua gravità, soprattutto per i casi Grecia e Irlanda, in Europa non si era riflettuto abbastanza sul fatto che la catastrofe di un paese avrebbe determinato il precipitare dell’intera Unione. L’euro come moneta unica ha introdotto questo duro ma ineludibile destino comune. Potevamo e dovevamo capirlo prima, ma così non è stato.
Grazie alla crisi dunque si sta aprendo una nuova fase per l’Europa.
I governi, seppur con ritardi e resistenze hanno condiviso la necessità di assumere ben chiari impegni nel costituire il fondo di salvataggio di 750 miliardi di euro per Grecia, Irlanda, Portogallo. Ma la crisi ha posto con brutalità anche inedite questioni sociali: i tedeschi, ma non solo loro, si sono posti l’interrogativo del perché dovevano fare sacrifici per la Grecia, dove lo stato mandava in pensione i suoi cittadini a 58 anni - trasferendo a carico della spesa pubblica un significativo onere - mentre coloro che erano chiamati ad aiutare per rendere sostenibile questo debito, vanno in pensione a 65.
Nel peggiore dei modi è entrato in scena, imposto dalla crisi, l’insostenibilità di così ampie differenze nei modelli sociali europei. Meglio sarebbe stato, come vanno dicendo da anni le Acli, aver capito che il preteso legame tra i popoli, richiesto per edificare l’Europa, esigeva fin dalla nascita dell’euro la promozione di una maggiore omogeneità di trattamento nei diversi welfare.
Questo cambio di paradigma – la strategia Europa 2020 ne è l’esempio - sta influenzando positivamente il pensiero politico europeo, e ci porta progressivamente ad abbandonare la vecchia concezione, esageratamente ragionieristica, degli indicatori di Maastricht, per cominciare ad assumere come indice di sviluppo anche la coesione e tutela sociale e la crescita dell’occupazione, prima lasciati all’esclusiva competenza degli stati membri.
Si inscrive dentro questo scenario il lavoro svolto nell’ultima sessione del Consiglio Europeo, dove è emerso un nuovo orientamento sui criteri da adottare per monitorare lo stato di salute di un paese: non solo valutazione del debito pubblico, ma anche della finanza privata, ovvero del risparmio delle famiglie, ma anche la solidità dei sistemi bancari nazionali, l’equilibrio dei sistemi previdenziali, ed inoltre anche i saldi della bilancia commerciale. Si comincia finalmente a guardare ad debito in forma aggregata evidenziando come non sia solo il deficit pubblico a decidere del destino di un paese.
La sostenibilità finanziaria del debito aggregato pone l’Italia in una condizione ben diversa da quella occupata fino ad ora, potendo far valere alcune nostre virtù fino ad oggi ignorate. E le politiche di bilancio nazionali saranno misurate da nuovi indicatori, quali: la crescita dell’occupazione, l’incremento della ricerca, il rafforzamento dell’istruzione e della formazione, l’efficienza energetica e il contrasto alla povertà.
Ma ora che l’Europa si è decisa a mettere a tema delle proprie politiche occupazione e welfare resta tutto da affrontare il tema di quali tutele porre nel mercato del lavoro e come assicurare standard di protezioni e diritti sociali.
Qui si presentano due enormi sfide culturali e politiche.
La prima. La ristrettezza di risorse pubbliche, l’invecchiamento della popolazione, il contrasto ai debiti sovrani, le difficoltà ad agganciare con forza la ripresa, la spietata concorrenza dell’economia globalizzata, sono tutti elementi evidenti nel descriverci che sarà pressoché impossibile far lievitare a spesa pubblica. C’è bisogno di mettere in campo un cambio di paradigma nelle politiche sociali e di tutela del lavoro, un nuovo modello di tipo mutualistico che coniughi: intervento pubblico, investimento privato, agevolazioni fiscali e gestione sociale. Sarà questo il nuovo terreno della partecipazione, della corresponsabilità e della costruzione di fattive forme di solidarietà.
La seconda. Tutto questo dovrà iscriversi dentro un nuovo scenario per la crescita e lo sviluppo. Non è casuale infatti che i timidi segnali di ripresa siano tutti trainati dalle esportazioni, il mercato dei consumi interni non dà segni di inversione di tendenza. C’è da chiedersi se questo sia un fenomeno congiunturale, dovuto al protrarsi della crisi e all’aumento della disoccupazione di questi ultimi anni, oppure se nelle società occidentali non ci troviamo di fronte a cambiamenti più radicali che mettono in discussione quello sfrenato consumismo che aveva caratterizzato il nostro costume di vita negli ultimi decenni. Ma se i consumi non saranno destinati a crescere, ma al contrario continueranno a contrarsi, come potremmo recuperare quelle ampie fasce di disoccupati e inoccupati che la crisi e i bassi tassi di crescita hanno indotto in particolare nel nostro paese?
Parlare di nuovo sviluppo significherà programmare un futuro fatto di una più consistente spostamento della spesa privata dal consumo di beni al consumo di servizi, in particolare a carattere sociale.
È questo il terreno privilegiato su cui si dovrà cimentare l’economia civile di cui parla Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in Veritate, capace di affiancarsi all’economia di mercato, concorrendo all’umanizzazione dello sviluppo.
di Maurizio Drezzadore
Fonte: http://www.acli.it/
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