Nel 2008, una stima della United States Geological Survey ha stabilito che sotto i ghiacci del Polo Nord si celano circa 90 miliardi di barili di petrolio e altri 44 miliardi di gas naturale liquido, distribuiti in 25 aree geologicamente esplorabili. Dei totali stimati, circa l’84% si trova in mare aperto. Per questo sempre più esperti sono convinti che il futuro del mondo si giocherà a nord, dove il rapido scioglimento dei ghiacci promette di aprire questo immenso forziere di risorse ancora intatte.
In altre parole, l’Artico è una torta e tutti ne vogliono una fetta. Un banchetto al quale si potrà partecipare solo sedendosi al tavolo giusto: quello del Consiglio Artico.
Oggi Cina, India e Brasile e Giappone, benché geograficamente lontani dalle fredde acque del Nord, bussano ora alla porta del sempre più influente Consiglio chiedendo l’ammissione in qualità diosservatori permanenti. La Cina, ad esempio, ha già una stazione di ricerca nelle isole Svalbard e sta completando la costruzione di una nave rompighiaccio da 8.000 tonnellate.
I membri titolari del Consiglio artico sono gli otto Stati litoranei (Canada, Russia, Stati Uniti, Norvegia, Finlandia, Svezia, Islanda e Danimarca) e i sei gruppi indigeni del Nord. Poi ci sono gli osservatori: quelli permanenti (Regno Unito, Francia, Germania, Spagna, Polonia e Paesi Bassi) e quelli occasionali (in passato anche l’Italia). Il regolamento prevede che quest’ultimo status possa essere concesso solo a quegli Stati che, a parere del Consiglio, possono contribuire allo svolgimento dei lavori. Tuttavia le potenze emergenti, ma anche Giappone, Corea del Sud, e Unione Europea ambiscono ora ad un riconoscimento permanente. Un passo che accrescerebbe l’influenza della componente non artica nel forum.
Non è difficile comprendere perché i membri attuali, Russia e Canada su tutti, sono contrari ad accogliere nuovi componenti intorno al tavolo.
Che il Consiglio Artico necessiti di un rinnovamento, è opinione diffusa. Attualmente lo scopo del consesso è quello di proporre raccomandazioni ai governi degli Stati membri con un focus sul tema dello sviluppo ambientale e sostenibile. Ma quanto passerà prima che il forum estenda il proprio mandato a questioni come la sicurezza, diventando così una fonte di decisioni giuridicamente vincolanti? Già in passato il Consiglio, tra le altre cose, ha affrontato e risolto dispute territoriali o negoziato accordi sulle operazioni di ricerca e sviluppo.
I Paesi scandinavi sono i più forti sostenitori di tale evoluzione, consci che solo la proiezione geopolitica offerta da un’organizzazione internazionale di rilievo può compensare il proprio peso piuma rispetto a giganti come Stati Uniti e Russia.
Non è detto che il futuro del Consiglio si muoverà in questa direzione, anzi. Mentre si discute dell’allargamento a partecipanti non artici, i membri più influenti puntano addirittura a restringerlo.
Negli ultimi anni è emerso un cosiddetto “Arctic 5”, formato da Canada, Danimarca/Groenlandia, Norvegia, Russia e Stati Uniti, che si è riunito per la prima volta nel maggio 2008 a Ilulissat, Groenlandia.
Dal punto di vista giuridico, l’iniziativa potrebbe condurre al prossimo blocco di ogni diritto dei Paesi esterni sull’Oceano Artico, costruendo un fronte unito per salvaguardare e condividere il ricco bottino nel loro piccolo gruppo. Da un lato i Paesi maggiori creano una sorta di élite artica con l’esclusione di Islanda, Finlandia, Svezia e gruppi indigeni; dall’altro è evidente come tali Stati si considerino in concorrenza non tanto tra di loro quanto con gli attori non artici, come Europa e potenze emergenti. Stiamo dunque assistendo a quella che ha tutta l’aria di una “serrata” del Polo.
Peraltro, accanto all’A5 pubblico e “ufficiale”, se ne sta formando un altro, privato e ben più influente. È quello delle grandi compagnie petrolifere: BP, Shell, ExxonMobil, Lukoil e ConocoPhillips. Anche Eni cerca di accaparrare qualcosa Il rischio concreto per il futuro della regione è che il ruolo dei governi sia messo da parte in favore degli interessi delle companies. Non dimentichiamo che i maggiori finanziatori nelle campagne presidenziali negli USA sono sempre queste ultime.
La corsa alle trivellazioni è già iniziata. Ad inaugurarla è proprio quella BP resa famosa dal disastro nel Golfo del Messico, triste presagio per una futura serie di operazioni dai costi ambientali potenzialmente incalcolabili.
Ai sensi del diritto internazionale consuetudinario, il principio vigente è quello del “chi inquina paga“, e varie ricerche dimostrano come il rischio di incidenti analoghi a quello della Deepwater Horizon sia tutt’altro che remoto. Ma il business è così allettante che i profitti derivanti dalle estrazioni supererebbero qualunque perdita dovuta ad incidenti.
In questo quadro, che ne sarà degli abitanti dell’Artico? Potrebbero essere tentati dal partecipare al business più che ad ostacolarlo, incamerandone ovviamente le briciole. L’unica certezza è che rivestiranno un ruolo sempre più marginale. Un peccato, se pensiamo che il Consiglio Artico è al momento l’unica organizzazione internazionale che permette ai popoli indigeni di sedersi al proprio tavolo, in parità con gli Stati membri.
È prevedibile che i diritti degli abitanti saranno sempre più emarginati. La storia ci insegna che un evento può tradursi in vittoria o sconfitta, ricchezza o povertà a seconda del punto di vista in cui ci poniamo. Quella dell’Artico dice che il passato appartiene ai popoli e il presente agli Stati, ma il futuro, probabilmente, sarà delle multinazionali.
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