venerdì 21 gennaio 2011

ECCEZIONALISMO E DECLINO DELLA CLASSE MEDIA NEGLI USA

di Cesare Merlini* 
Solo tre giorni sono intercorsi fra la nostra nota sul primo AffarInternazionali del 2011, in cui parlavamo della “durezza” e della “faziosità” dello scontro politico negli Stati Uniti, e le revolverate sparate all’impazzata durante un abituale incontro fra una deputata del Congresso, Gabrielle Giffords, e la sua constituency in una piazza qualsiasi di Tucson, Arizona. Al tragico bilancio della strage - sei persone uccise, compresa una bambina, e 19 ferite, fra cui la Giffords - si aggiunge la sensazione di un’America in preda a un crescente estremismo politico e dove il centro moderato fatica sempre più a far sentire la sua voce. Fenomeni che non sono solo effetto di contingenti situazioni politiche, ma riflettono probabilmente mutamenti di più lungo termine della società americana.

America divisa

Sotto i riflettori dei media di tutto il mondo, le reazioni politiche immediate hanno rispettato il copione tradizionale. I simpatizzanti della Giffords, democratica, ebrea, selettivamente liberal, hanno subito puntato l’indice sull’atmosfera di odio alimentata dall’altra parte, in ciò efficacemente aiutati dalla “pistola fumante” di Sarah Palin, la leader del movimento Tea Party, che sul suo sito internet aveva designato col cerchio crociato di un mirino la giovane rappresentante dell’Arizona, onorandola del terzo posto nella classifica dei nemici da (ab)battere.

Gli avversari della vittima designata si sono invece applicati a sottolineare la natura disturbata e isolata dell’attentatore, ad un tempo micidiale e fallito, e hanno tacciato di malafede ogni accusa di corresponsabilità “ambientale” a loro rivolta (è un copione che, sia detto per inciso, suona familiare anche a casa nostra).

Passati i primi giorni, l’atmosfera si è parzialmente e gradualmente rasserenata. Il sigillo della distensione è venuto dal presidente Obama in persona, che meno di una settimana dopo ha tenuto all’università dell’Arizona un discorso di alto tenore morale, che ha raccolto il consenso di un largo spettro dell’opinione pubblica del paese, quasi indipendentemente dalle collocazioni politiche.

Peraltro il fattaccio di Tucson non è certo inaudito nella storia degli Stati Uniti, e nei giorni di massima attenzione mediatica nazionale e internazionale, redattori e commentatori hanno fatto ampio e documentato riferimento ai molti precedenti. Principale fra questi, naturalmente, il fattaccio di Dallas, quasi mezzo secolo prima, quando Lee Harvey Oswald colpì a morte John Fitzgerald Kennedy. Anche in quell’occasione non mancarono i riferimenti alla polemica politica del momento, accanita soprattutto nel sud del paese e simboleggiata dal ben noto manifesto, affisso in tutto il Texas proprio nei giorni della visita, con la scritta cubitale WANTED FOR TREASON, ricercato per tradimento, sovrapposta obliquamente al ritratto del presidente in carica.

Declino della classe media

Niente di nuovo, allora? Incidente chiuso? Sotto l’incalzare di altri eventi, è forte la tentazione di liquidare così la faccenda. È bene invece resistervi e riprendere il discorso della polarizzazione partigiana in America, per leggerla alla luce delle caratteristiche del momento che viviamo e delle differenze da quella che fece da sfondo ai precedenti eventi politici di sangue.

Due meritano, ci sembra, particolare attenzione. La prima è che l’estremizzazione politica e il conseguente indebolimento del centro moderato, che - lo sottolineavamo nella precedente nota - tradizionalmente fungeva da ago della bilancia nelle competizioni elettorali, quelle presidenziali in particolare, riflette oggi un cambiamento sociale prima ancora che politico: il declino della classe media nella società americana. Nel corso dell’ultima generazione l’immagine degli Stati Uniti in crescita economica ha nascosto il fatto che l’un per cento più ricco della popolazione, che alla fine degli anni ‘70 deteneva meno di un decimo del Pil nazionale, alla vigilia del grande sconquasso del 2008 era giunta a detenerne quasi un quarto. Nel frattempo il reddito mediano, che separa la metà superiore dalla metà inferiore della popolazione, era in realtà calato e le classi medie sono state le principali vittime dello scoppio della bolla del credito ultrafacile. Il pericolo è allora che un tale sostrato sociale aumenti la consistenza e la profondità del fenomeno politico della divisione.

La seconda differenza dal passato riguarda ancora un declino, che è però quello degli Stati Uniti come nazione nella gerarchia delle potenze mondiali. La questione non è qui tanto quella della natura, relativa o assoluta, e della misura, rapida o lenta, del declino, su cui si cimentano da tempo numerosi storici e politologi, quanto quella di una nuova percezione da parte degli americani, ora confusa ora più chiara, comunque tale da intaccare il credo nell’“American exceptionalism” e da offuscarne il futuro. Principalmente è la coscienza del fatto che la capacità degli Stati Uniti di determinare l’andamento delle cose in quasi ogni angolo della terra (mai stata piena, in realtà, ma abbastanza diffusa nel sentire del paese, soprattutto dopo la fine della guerra fredda, nonostante il Vietnam) è sostanzialmente e irreversibilmente diminuita in un mondo multipolare dalle sfide più complesse (anche se forse meno drammatiche) e dalle alleanze (anche per questo) meno solide. Il pericolo in questo caso è che il senso della potenza declinante, causi ancora una volta, come spesso nella storia, divisione fra i sudditi, ora fra i cittadini, e che il senso dell’eccezione ceda il passo alla sindrome, confinante, della solitudine.

Risalire la corrente

L’agenda internazionale dell’amministrazione Obama, costellata nel corso dei dodici-diciotto mesi a venire dalle molte e difficili situazioni di crisi, illustrate da Stefano Silvestri nel suo articolo "L’anno delle scelte", è resa ancor più ardua dalla necessità di scongiurare i due pericoli suddetti. La riqualificazione sociale del centro moderato e la bipartisanship, che il presidente tenta di recuperare, incidono normalmente su due aspetti dell’azione di governo, la gestione fiscale e la politica estera: due aspetti che però oggi sono legati in misura ben maggiore che nella norma.

E l’America non è sola. Prima forza militare e prima economia mondiale, gli Usa sono ancora al centro del sistema mondiale di potenze e di interdipendenze, in gran parte formatosi sotto l’influsso del suo “liberal internationalism” prima dell’inizio del declino. È agendo in questo sistema che, come bene spiega John Ikenberry in un numero recente di Current History, gli Stati Uniti possono continuare ad esercitare un ruolo decisivo. Non in isolamento, ma in partnership con i paesi che questa strategia hanno condiviso e con le potenze emergenti che in essa vanno coinvolte, prima fra tutte la Cina. Obama sa che, soprattutto nel rapporto con la Cina, più peso che mai avrà la coerenza dell’operato economico e politico, interno e internazionale, del suo governo, così come l’immagine di una nazione le cui libertà democratiche sono motivo di forza e non di divisione, a fronte di un interlocutore in ascesa anziché in declino, ma che in materia ha molta argilla nei piedi.

*Cesare Merlini è Presidente del Comitato dei Garanti, Istituto Affari Internazionali.

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