di Piero Pagliani – Megachip.
1. E così l’attacco alla Libia è iniziato. Nel momento in cui scrivo questo articolo le agenzie battono la notizia che sulla Libia sono già stati lanciati 110 missili.
Quando sarà pubblicato, ci saranno probabilmente già state, Dio non voglia, le prime vittime civili “per errore”. Già mettono le mani avanti e ci vengono a dire che Gheddafi usa i civili come scudi umani.
Ricorda qualcosa? Sì, è il copione iracheno che si ripete, in modo addirittura sfacciato.
Da quanto si capisce - e purtroppo molti pezzi della cosiddetta sinistra radicale non vogliono vedere - l’attacco al quale impotenti assistiamo è stato pianificato come piano B qualora le forze anti-Gheddafi, rifornite di armi tramite l’esercito Egiziano (per ammissione degli USA), non fossero riuscite a rovesciare il leader libico.
È evidente che non ci riuscivano. Anzi, Gheddafi stava per riprendere il controllo del Paese. A questo punto l’attacco dall’esterno era obbligatorio.
È quasi sorprendente che moltissimi rinomati maitre-à-penser progressisti e sedicenti comunisti, che solo dieci anni fa per le stesse cose sarebbero scesi in piazza, non abbiano avuto sentore di questo semplice schema sotto gli occhi di tutti. Cioè dello “schema Iraq”. Nemmeno a “fargli i disegnini”, come si dice.
Ovverosia non è servito a nulla nemmeno che i vertici del Pentagono dicessero all’unisono con i vertici militari russi che non c’era nessuna prova dei bombardamenti sui civili che Al-Jazeera, la rete televisiva proprietà di alcuni boss del petrolio della Penisola Arabica, dava per certi fin dall’inizio della crisi, portando a testimonianza vari “sentito dire”. Non è servito a nulla che fosse subito saltato fuori che le pretese fosse comuni a Tripoli erano invece fosse singole fotografate durante i lavori di sistemazione del cimitero di cittadino.
In poche parole, i progressisti e i sedicenti comunisti si sono adeguati beatamente alle bugie imperiali per poter rendere omaggio al motto ironico della sinistra statunitense: “Say no to war ... unless a Democratic is president”.
Se dieci anni fa le guerre di Bush facevano scendere in piazza milioni di persone per protesta, oggi le “guerre umanitarie” hanno fatto proseliti in ogni coscienza. Per dirla con antiche parole di Rossana Rossanda, la sinistra pressoché al completo ha «adottato il senso comune dell’avversario all’attacco». E anche Rossana Rossanda stessa lo ha fatto, e ha staffilato Valentino Parlato per non essersi dichiarato con convinzione antigheddafiano.
E così il senso comune dell’avversario all’attacco ha conquistato anche chi lo denunciava. Siamo ormai in pieno paradosso del mentitore.
Ma non c’è da meravigliarsi: ho sempre pensato che una delle armi più potenti dell’imperialismo statunitense fosse quella culturale. E così è: nel momento in cui sembrano in gravi difficoltà, impantanati in Afghanistan, incapaci di normalizzare l’Iraq, incalzati da Russia e Cina, disubbiditi da Turchia e Brasile, indebitati fino al collo, nel mezzo di una crisi finanziaria di gigantesche proporzioni, ecco che ritornano ad essere egemonici sull’Europa - con la notevole parziale eccezione della Germania - e su buona parte del Medio Oriente, facendo d’incanto dimenticare Iraq, Afghanistan e i mugugni europei.
Le rivolte nel Maghreb, incautamente esaltate da un punto di vista politico da persone più avvezze al populismo che alle analisi rigorose, non hanno spostato di un centimetro la loro influenza nella regione. Anzi - ed è sotto gli occhi di tutti a suon di bombardamenti - la stanno rilanciando alla grande.
Gli Stati Uniti sono uno strabiliante Paese. Nel 1971 proprio mentre stavano perdendo la guerra nel Vietnam, il presidente Nixon ebbe l’ardimento di proclamare l’inconvertibilità del dollaro in oro, ovverosia di dire al mondo che il sistema monetario internazionale si sarebbe basato d’ora in poi sulla potenza americana pura. E fu una mossa stupefacente: da quel momento i Paesi in surplus sarebbero stati costretti a comprarsi il debito pubblico statunitense e avrebbero dovuto sostenere la superpotenza.
Solo la Francia gaullista protestò e cercò di mettere il bastone tra le ruote di questo sistema. Oggi la Francia del marito di Carla Bruni è in prima fila nell’attacco alla Libia, ansiosa di premere il grilletto.
E qui arriviamo alla seconda parte della storia.
2. È evidente che il petrolio rientra a pieno titolo nel quadro. Ma non è l’unico elemento. In realtà io sono convinto che questa prima parte dei sommovimenti nel Maghreb abbiano un fine ben più ambizioso che si conclamerà in un atto successivo: ridefinire le aree di influenza in Africa, nel continente dimenticato. Dimenticato dai media, perché non ci sono incrementi del PIL da capogiro come in Asia o in Brasile, ma anche perché non ci sono più leader politici di rilievo, a parte Nelson Mandela a Sud e, per l’appunto, Gheddafi a Nord. Per il resto si sa solo che c’è una micidiale guerra civile nel Congo, che ce n’è una altrettanto micidiale nel Sudan, e che ci sono conflitti interni in Nigeria, in Somalia, nel Niger, in Costa d’Avorio. Si sa, ma non se ne parla. Si parla, quando conviene, della capacità di penetrazione della Cina nel Continente Nero, cosa che per principio da noi Occidentali è considerata una scandalosa intrusione, ma che non sorprende considerando che la Cina possiede buona parte dei mezzi di pagamento mondiali e quindi i Paesi africani sono ben più contenti di essere pagati dalla Cina piuttosto che essere rapinati da noi.
Infine qualcuno ricorda che in quel continente dimenticato - sicuramente da Dio e dai media, ma non dagli uomini - si trovano cobalto, uranio, cromo, manganese, platino, petrolio e altre ricchezze naturali. E se si guarda da vicino, si vede che Gheddafi ha una notevole influenza su molti dei Paesi che custodiscono tali ricchezze.
Gli Stati Uniti si sono installati in alcune nazioni africane ma quel continente necessita di una stabilità, e soprattutto di uno solo che comandi e decida per tutti. In altri termini ha bisogno di una pax americana.
Gli USA lo sanno da tempo. Sanno ad esempio che il controllo sul Medio Oriente si deve accompagnare con quello dell’Africa Orientale. Per questo sono ad esempio già intervenuti direttamente in Somalia, nel 1993 e nel 2007. Per questo sono intervenuti direttamente in Sudan: credo che qualcuno si ricorderà che nell'agosto 1998, in pieno "Sexgate", Bill Clinton fece bombardare le industrie farmaceutiche di Al-Shifa, adducendo la scusa che lì si preparavano armi chimiche, ma in realtà distruggendo buona parte delle scorte farmaceutiche del Paese. Come ci ricorda Noam Chomsky, gli USA riuscirono a bloccare un’inchiesta dell’ONU su questi attacchi.
Sono casi che hanno fatto scalpore, ma non unici, perché gli Stati Uniti non hanno per nulla dimenticato l’Africa.
Nell’introduzione al rapporto del 2005 dal titolo “Più che Umanitarismo: un Approccio strategico degli Stati Uniti verso l’Africa”, Richard Haas, presidente del Council on Foreign Relations, sottolineava che «entro la fine del decennio l’Africa sub-sahariana probabilmente diventerà una fonte di importazione energetica per gli Stati Uniti importante come lo è ora il Medio Oriente».
Ecco: le “guerre umanitarie” si fanno “più che per umanitarismo”: si fanno per geostrategie. Si fanno per le materie prime, per le risorse energetiche e per il contenimento dei grandi competitor internazionali.
Eppure questi competitor non si sono opposti in Consiglio di Sicurezza. Perché?
Forse, capendo benissimo che gli USA e i suoi alleati sarebbero intervenuti in ogni caso, hanno voluto che almeno formalmente l’intervento fosse regolato dai limiti di un dispositivo delle Nazioni Unite (che in realtà non regolamenterà un bel nulla, dato che è già fuori dalla legalità internazionale, poiché la carta dell’ONU non prevede interventi militari se non in caso di attacco ad una nazione sovrana, cosa che non si applica alla Libia). O può essere che gli USA abbiano usato chissà quali armi persuasive. Di sicuro la Russia ha già fatto capire che la sua astensione è stata presa obtorto collo (ha subito protestato per i bombardamenti) e la Cina sa benissimo che sta subendo un grave colpo. Tuttavia la competizione sul piano militare è estranea al DNA dell’Impero di Mezzo e fedele al fatto di essere maestra insuperabile nella diplomazia, sta sicuramente rimuginando per bene cosa dire.
Ad ogni modo sembrano per ora tutti costretti a fare da spettatori all’apertura col piede di porco di una delle porte più resistenti all’invasione imperialistica dell’Africa.
Non sorprende che a dar manforte si siano subito suggeriti, con la solerzia di chi alza continuamente la mano in classe e certi di ottenerne benefici, chi questi benefici in Africa li ha già sperimentati: la Francia, indifferente ai quattro milioni di morti che le sue guerre coloniali fecero in quel continente, e la Gran Bretagna.
Ma la guerra deve essere velocissima e quindi feroce perché l’85% del petrolio libico finisce in Europa. In particolare le nostre forniture dipendono dalla Libia per il 30% per quanto riguarda il petrolio e per il 10% per il gas.
Bisogna quindi dare una lezione rapida a Gheddafi, Rapida ed esemplare perché l’intera Africa e l’intero mondo arabo la capisca.
Berlusconi dal canto suo ha già capito con le cattive che non può “bypassare” gli USA in politica estera e in politica energetica e così ha fatto carta straccia del trattato di amicizia con la Libia appena firmato, rendendosi degno di Casa Savoia della quale un adagio popolare diceva che non aveva mai finito una guerra dalla stessa parte dove l’aveva iniziata, a meno che avesse voltato gabbana un numero pari di volte.
Mission accomplished! Scommetto che ora si rimetterà in discussione anche Southstream.
E la rivista “Micromega” sarà soddisfatta: dei tre teppisti sulla moto rappresentati in una famosa copertina due stanno già per ricevere il fatto loro. Manca ancora Putin. Ma anche in Russia qualcosa capiterà, stiamone pur certi.
Intanto godiamoci lo spettacolo dei 110 missili che hanno aperto l’Odissea all’Alba.
Un’alba radiosa, non c’è che dire.
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