Lunedì scorso sono arrivati
i primi 3,9 miliardi di euro da parte del Tesoro Italiano con destinazione
Monte dei Paschi di Siena, approvati dalla Commissione Europea in cambio di un
piano di ristrutturazione del debito. Questo prestito, si legge nella nota
della Commissione, consentirà alla banca di conformarsi alle raccomandazioni
dell'autorità bancaria europea (Eba) e costituirà una riserva supplementare
temporanea di patrimonio per contrastare la sua esposizione al rischio di
debito sovrano.
Galeotta fu la nascente Unione
bancaria europea di qualche giorno fa tra i 27 ministri economici
dell'Unione, a favore di un piano di ricapitalizzazione (propagandisticamente
meglio definita come “vigilanza bancaria”) da parte della BCE per quelle banche
con un patrimonio superiore ai 30 miliardi di euro (per il resto delle banche,
l'accordo prevede saranno gli stati nazionali a provvedere).
Spiacente, si fa per dire,
per tutti coloro che credevano che in Italia non ci sarebbero stati salvataggi
bancari grazie alla indubitabile stabilità di cui gli istituti finanziari si
supponeva godessero.
Ecco appunto, perché di
salvataggio si parla nel caso della Mps. Che tra l'altro, come anticipato da
Standard & Poor's il 6 dicembre, potrebbe non essere sufficiente per
impedire comunque un deterioramento in materia di capitale della banca, la
quale, è bene sottolineare, era stata classificata dall'agenzia nella categoria
“speculativa”.
A detta dei ministri
comunque la decisione dell'unione bancaria sarà un passo fondamentale per la
sicurezza dei depositi bancari, ma nulla nell'accordo si dice per esempio a
proposito di ciò che Chesnais definisce come la socializzazione delle
perdite, ovvero il fatto che milioni di cittadini stiano pagando i debiti che
in realtà sono le banche ad aver accumulato.
Crediamo veramente che le
banche europee, anche quelle italiane, non abbiano nulla a che vedere con la
crisi del debito?
E' un fatto che esse si
siano fatte impigliare, non certo ingenuamente, dalla crisi immobiliare e
bancaria negli Stati Uniti. Meno evidente è sbrogliare la matassa del
cosiddetto sistema ombra che le stesse banche (insieme ai fondi e società di
investimento ecc.) hanno creato indebitandosi attraverso l'investimento in
prodotti derivati, che non risultano nei loro bilanci contabili. Ora, quando
queste attività subiscono, come hanno subito, delle perdite, ciò si ripercuote
su tutto il sistema bancario.
Secondo il Rapporto del
Consiglio di Stabilità Finanziaria (organo creato dal G20) dello scorso
novembre infatti, il peso del cosiddetto shadow banking system per i 25 paesi
che possiedono il 90% degli attivi finanziari mondiali è di 67.000 miliardi di
dollari, ovvero la metà degli attivi totali delle banche e circa l'equivalente
della somma del Pil di tutti i paesi del mondo. E' un altro fatto che questa
cifra sfugge e probabilmente sfuggirà a qualsiasi regolamentazione e unione
bancaria europea.
Infine, contrariamente a ciò
che si crede, ciò che minaccia le banche non è e non sarà un default di
pagamento da parte degli stati per una ragione molto semplice: ciò che minaccia
le banche dal 2007 ad oggi è la montagna di debiti privati (molto più alti di
quelli pubblici) accumulati grazie alla deregolamentazione bancaria creata a
partire dagli anni '70 e implementata dagli anni '90. A riprova di ciò il fatto
che nessun fallimento bancario a partire dal 2007 è stato causato da un default
di pagamento sovrano.
La domanda è ora, vogliamo
davvero seguire l'esempio della franco-belga Dexia, della spagnola Bankia e
degli Stati Uniti in primis, trasformando il debito privato in pubblico, o
vogliamo finalmente denunciare questi fatti, rimettendo in campo la questione
non più procrastinabile della necessità di una nuova finanza pubblica.
di Chiara Filoni
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