La più grande istituzione multilaterale di sviluppo è ormai costantemente presente ai vertici sui cambiamenti climatici. Il suo fine è “giocare un ruolo” di rilievo, gestendo i miliardi di dollari messi a disposizione a livello globale per la cosiddetta finanza per il clima.
Eppure sono anni che i banchieri di Washington dimostrano di non volersi mai tirare indietro quando c’è da concedere un prestito per il settore estrattivo, tra i maggiori responsabili dell'aumento delle emissioni in atmosfera che causano il surriscaldamento del Pianeta. In maniera quasi paradossale, questo trend è addirittura in aumento. Nel 2010 a progetti per i combustibili fossili sono andati circa 6,6 miliardi di dollari, il 116% in più rispetto all’anno precedente. Finanziamenti in buona parte destinati alla mega centrale a carbone di Medupi, in Sudafrica, la terza più grande al mondo in uno dei Paesi con il più alto potenziale per gli investimenti nelle energie rinnovabili. Un’opera controversa, quella di Medupi, contro cui la società civile locale e internazionale si è già mobilitata e che sta già portando con sé una lunga teoria di ricorsi legali – l’ultimo relativo alla distruzione di un fiume che scorre nei pressi del sito interessato dall’impianto. Alla faccia della retorica sulla lotta alla povertà (suo obiettivo primario), per anni la Banca ha garantito soldi pubblici a governi autoritari per progetti che causano danni all'ambiente, violazioni dei diritti umani e contribuiscono ai cambiamenti climatici. Per questo oggi davanti agli uffici della World Bank a Roma, Washington, Londra, Parigi, Berlino e Madrid si sono tenute azioni dimostrative per chiedere uno stop ai finanziamenti per petrolio, carbone e gas. La protesta si è poi trasferita anche in rete. Le pagine Facebook e Twitter della Banca sono state bersagliate di domande da parte degli attivisti che chiedono conto della condotta dell’istituzione.
Vale poi la pena rammentare alla fine del 2009 la World Bank ha iniziato a rivedere la sua strategia sull’energia, che varrà per il decennio 2011-2021. Fino ad oggi l’istituzione non ha tenuto in debito conto la serie di critiche mosse nei suoi confronti, come nel caso della Extractive Industries Review del 2003, che chiedeva uno stop definitivo al sostegno al carbone e un graduale abbandono del petrolio entro il 2008. Al contrario la Banca mantiene tra le sue priorità negli investimenti energetici il sostegno a combustibili fossili, senza fissare tra i suoi obiettivi quello di favorire l'accesso dei poveri all'energia, e nonostante l'evidenza ultra decennale di come questi investimenti abbiano favorito la concentrazione della ricchezza nelle elite al potere, oltre che il controllo delle risorse da parte di multinazionali straniere. Inoltre, la Banca Mondiale continua ad avere un approccio basato sul sostegno di grandi progetti infrastrutturali, destinati alla produzione di energia che viene poi rivenduta sui mercati internazionali invece che rispondere ai bisogni energetici delle popolazioni povere dei Paesi dove vengono costruiti gasdotti o oleodotti. Una modalità di operare che deve cambiare se l'obiettivo è la transizione verso un sistema a basse emissioni che permetta la sostenibilità del pianeta nel lungo termine.
A seguire alcuni dati sui principali progetti estrattivi sostenuti dalla Banca mondiale negli ultimi 15 anni.
CENTRALE DI MEDUPI
Nonostante una crescente opposizione locale e internazionale, nell’aprile del 2010 la Banca mondiale ha deciso di staccare un assegno di ben 3,75 miliardi di dollari intestato alla compagnia sudafricana Eskom. La multinazionale del settore estrattivo impiegherà quel fiume di denaro per la realizzazione della centrale a carbone di Medupi, nel Nord del Paese. Una volta attivo, l’impianto provocherà impatti negativi molto pesanti sui terreni e sulle risorse idriche dell’area interessata, contribuendo inoltre ai cambiamenti climatici tramite l’emissione di 30 milioni di tonnellate di CO2 l’anno.
Per alimentare il nuovo mega impianto, poi, in Sudafrica si apriranno fino a 40 nuove miniere di carbone, condannando così per i prossimi decenni il Paese alla dipendenza dal combustibile fossile più inquinante che si conosca. Nei giorni che hanno preceduto la decisione della Banca le comunità locali, tramite le organizzazioni Earthlife Africa e Ground Work, hanno inoltrato un reclamo formale all’Inspection Panel, l’organo ispettivo indipendente dell’istituzione di Washington, nel quale si contestano le nefaste conseguenze socio-ambientali del progetto. Una mossa, quella delle realtà della società civile sudafricana, che è un po’ il culmine delle proteste che per settimane hanno investito la Eskom e la stessa World Bank. I sostenitori di Medupi affermano che l’opera faciliterà l’accesso all’energia elettrica da parte dei più poveri. Una tesi fortemente contestata dagli oppositori del progetto, tra cui lo stesso sindacato sudafricano, il COSATU, che invece pensano che la centrale andrà a beneficiare numerose compagnie multinazionali particolarmente “energivore” e inquinanti che, grazie ad accordi ancora in vigore dal periodo dell'apartheid, spunteranno delle tariffe inferiori rispetto a quelle previste da Eskom per le famiglie più povere.
Le preoccupazioni sulle implicazioni socio-ambientali del progetto sono così numerose e circostanziate, che i vertici delle Commissioni Esteri e sui Servizi Finanziari del Senato degli Stati Uniti avevano scritto al presidente della Banca mondiale Robert Zoellick per manifestare le loro perplessità. Nella sua risposta, l’ex fedelissimo di George W. Bush però aveva già lasciato intendere come sarebbe andata a finire la votazione, perorando la causa della corporation sudafricana.
D’altronde la Eskom è storicamente un cliente affezionato della Banca mondiale, dal momento che già fra il 1951 e il 1967 i banchieri di Washington avevano aiutato finanziariamente l’azienda. Peccato che all’epoca l’energia prodotta arrivasse a basso costo solo nelle abitazioni dei bianchi, mentre alle famiglie nere non era garantita nessuna possibilità di accesso alla corrente elettrica.
Val la pena rammentare che al momento del voto finale sul progetto cinque direttori su 24, tra cui i rappresentati di Usa e Italia, si sono astenuti. Nella consuetudine della World Bank un’astensione equivale a un parere non positivo al finanziamento in esame.
L’OLEODOTTO CIAD CAMERUN
Doveva essere “il progetto modello”, l’esempio da copiare, da seguire e imitare per tutti i grandi impianti estrattivi da realizzarsi in Africa. Con il suo sostegno all’oleodotto Ciad-Camerun, la Banca mondiale intendeva fissare un precedente che sarebbe entrato di diritto negli annali della lotta alla povertà e del perseguimento dello sviluppo. Nel giugno del 2000, all’apice del boom della globalizzazione, i banchieri di Washington decisero di concedere un finanziamento di 330 milioni di dollari per la realizzazione dell’opera. L’unica voce fuori dal coro dei 24 direttori esecutivi dell’istituzione, guidato dall’allora presidente James Wolfensohn, fu quella del rappresentante italiano, Franco Passacantando, che si astenne. Evidentemente si era fatto convincere dalle argomentazioni delle realtà della società civile locale e internazionale, che per tre anni avevano condotto una incessante campagna per chiedere che la pipeline non ricevesse l’aiuto economico della World Bank. Per le Ong e le associazioni di base troppi erano i rischi socio-ambientali, troppe le possibili violazioni dei diritti umani, troppi i dubbi sul reale impiego dei fondi derivanti dallo sfruttamento petrolifero.
Per la precisione la pipeline che parte dai 300 pozzi nel Sud del Ciad per arrivare fino al porto camerunense di Kribi è lunga 1.070 chilometri. Iniziati nell’ottobre del 2000 e completati alla fine del 2003, i lavori sono costati un totale di 4,2 miliardi di dollari e hanno comportato la distruzione di preziosi tratti di foresta tropicale soprattutto nella parte che interessa il Camerun (in un’area di Africa dove in media ogni anno vengono già abbattuti 2mila chilometri quadrati di foreste), mentre la fitta rete di pozzi ha messo a rischio la falda d'acqua sottostante. D’altronde la produzione di greggio è alquanto elevata, attestandosi sui 170mila barili al giorno. Ciò nonostante, la stragrande maggioranza degli abitanti delle zone attraversate dalla pipeline non ha accesso all’energia elettrica o a combustibili fossili. Ma già nel 2006 il 30% delle entrate derivanti dal greggio fu impiegato per altri fini rispetto a quelli previsti, semplicemente dilatando così tanto il concetto di sviluppo da farci rientrare anche quello di sicurezza e attingendo a piene mani dal supposto fondo per le generazioni future. L’allora presidente della Banca, l’ex sottosegretario alla Difesa Usa Paul Wolfowitz, provò a fare la voce grossa con il presidente Idriss Deby, accusandolo in maniera esplicita di aver “spostato” le royalties del greggio dalle spese sociali a quelle per l’acquisto di armi. Armi che, val la pena rammentarlo, servono tuttora per combattere le forze ribelli sostenute dal Sudan.
Nel lungo braccio di ferro tra Wolfowitz e Deby fu il politico ciadiano ad avere l’ultima parola, dopo nemmeno troppo velate minacce di bloccare i flussi di greggio dal Paese africano verso gli Stati Uniti. Tuttavia il lungo tira e molla tra Banca mondiale e governo ciadiano è terminato solo nel settembre del 2008, quando l’istituzione decise sorprendentemente di terminare il finanziamento per l’oleodotto Ciad-Camerun a causa dei dissidi con il governo di N’Djamena. La Banca pretese il ripagamento anticipato di tutto il prestito di 140 milioni di dollari, dal momento che l’esecutivo ciadiano aveva continuato a non rispettare l’accordo preso di destinare una parte dei proventi derivanti dallo sfruttamento petrolifero al fondo per combattere la povertà. Una mossa tardiva e sterile, dal momento che con gli stessi proventi del petrolio – ben 1,4 miliardi di dollari solo in quell’anno – N'Djamena saldò i banchieri di Washington senza troppi problemi. Come se non bastasse, la pipeline attraversa il segmento più fertile di territorio ciadiano, dove la produzione agricola è in continua diminuzione. Non è andata meglio a coloro ai quali è stato permesso di restare nei pressi dell’area di sfruttamento petrolifero, probabilmente perché, come appena accennato, l’Exxon non aveva adempiuto al meglio ai suoi doveri per la rilocazione e le compensazioni. Senza parlare dell'enorme diffusione dell'Aids nelle zone attraversate dal progetto, infezione portata dalla forza lavoro straniera e dalla crescita esponenziale della prostituzione. Un disastro sociale documentato da Ong indipendenti a cui è difficile oggi porre rimedio.
L’OLEODOTTO BTC
Azerbaigian, Georgia e Turchia. Questi tre paesi del Caucaso del sud sono attraversati dal mega-oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC) che collega i giacimenti off-shore nel Mar Caspio con il Mar Mediterraneo, liberando l´oro nero del Caspio e lasciando fuori dalla partita la Russia e l´Iran.
Nel 1994, con la firma del ‘contratto del secolo’ con il governo dell´Azerbaigian, la BP si è attestata come compagnia di punta per lo sfruttamento delle risorse presenti sotto il Mar Caspio. Il 4 novembre 2003 la Banca mondiale ha approvato un finanziamento di 310 milioni di dollari, nonostante nelle settimane precedenti la decisione le Ong internazionali avessero presentato al consiglio della Banca mondiale un dettagliato dossier che provava ben 173 violazioni delle politiche operative della Banca da parte del suo staff nella valutazione del progetto. Pochi giorni dopo (11 novembre) la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo ha approvato un pacchetto per BTC per un totale di 280 milioni di dollari. Ma i soldi pubblici da soli non bastano ad un progetto la cui durata è di ben 40 anni in paesi instabili e ad alto rischio quali l´Azerbaigian, la Georgia e la Turchia. Troppo facilmente i governanti di oggi potrebbero cambiare idea una volta imbottiti di una parte dei profitti del petrolio e magari di armi; le leggi sono sulla carta ma non nella realtà.
I governi dei tre paesi sono stati forzati a firmare e ratificare accordi con statuto internazionale (Host Government Agreements con i singoli Paesi e l´Accordo Intergovernativo con tutti e tre) che sovrascrivono interamente la legislazione ambientale, sociale, del lavoro e dei diritti umani nel corridoio dell´oleodotto. Ogni legge futura (inclusi eventuali cambiamenti delle Costituzioni) che possa ridurre o colpire negativamente i diritti garantiti al consorzio o avere la precedenza su qualsiasi altra parte del progetto. Le esenzioni negoziate dal Consorzio BTC sono vincolanti su tutti i governi futuri, che così non avranno la possibilità di invocare i loro poteri esecutivi per emendare gli accordi in modo da garantire ai propri cittadini una maggiore tutela sulla salute, la sicurezza e l´ambiente o qualsiasi altro tipo di protezione. L´Azerbaigian è soggetto a forti critiche da parte di numerose organizzazioni internazionali per la questione dei diritti umani, spesso violati a causa di arresti e detenzioni arbitrarie, specialmente nei confronti di persone che hanno liberamente espresso delle critiche al governo, e per l´uso diffuso della tortura e di abusi contro i detenuti.
La creazione di un corridoio militarizzato, lungo l'oleodotto nella regione curda della Turchia, crea una seria minaccia di escalation di violenza in questa regione già devastata dalla guerra. La responsabilità per la sicurezza dell'oleodotto in Turchia è in mano alla Gendarmerie dello stato turco. Considerando i continui fallimenti dello stato turco ad intraprendere una seria riforma sulla questione dei diritti umani, e più particolarmente sulla persistente impunità di coloro che si sono resi responsabili di torture dei prigionieri e di omicidi extra-giudiziali, un aumento della militarizzazione del paese, legato allo sviluppo dell'oleodotto AGT, porterebbe seri pericoli per la pace in Turchia.

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