giovedì 23 settembre 2010

Messico, dalle vittime ai boia


Sconvolgente lettera dalla redazione del quotidiano El Diario ai capi dei cartelli della droga colpevoli delle violenze nel nord del Paese

Una lettera aperta ai responsabili dei cartelli della droga, colpevoli delle violenze che attanagliano il nord del Messico per chiedere una tregua e mettere fine alle aggressioni verso i giornalisti. Mentre la città di Ciudsad Juarez si ritrovava unita per celebrare le esequie del giornalista di El Diario ucciso la scorsa settimana, i girnalisti del quotidiano decidevano insieme di scrivere ai narcos.

Cosa volete da noi?

Signori delle diverse organizzazioni che vi contendete la piazza di Ciudad Juárez: la perdita di due reporter di questa casa editrice in meno di due anni rappresenta una ferita irreparabile per tutti noi che lavoriamo qui e, in particolare, per le loro famiglie.

Vi ricordiamo che facciamo informazione, non siamo degli indovini. E pertanto, in qualità di impiegati dell'informazione chiediamo che ci spiegate cos'è che realmente volete da noi, cos'è che pretendete che pubblichiamo, cosa ciò che smettiamo di pubblicare, per sapere a che attenerci.

In questo momento, voi siete le autorità di fatto in questa città, perché le istituzioni legalmente costituite non hanno potuto far niente per impedire che i nostri compagni continuino a cadere, nonostante più volte lo abbiamo preteso.

Ed è per questo che, dinanzi a quest'ineccepibile realtà, ci rivolgiamo a voi, perché quantomeno non vogliamo che un altro dei nostri colleghi sia ancora vittima dei vostri spari.

Anche se l'intero ordine dei giornalisti di questa frontiera ha sofferto le conseguenze di questa guerra in cui voi e il governo federale vi trovate, El Diario è stato senza dubbio il mezzo più colpito finora, perché nessuno ha risentito della morte di due collaboratori, come noi.

Non vogliamo più morti. Non vogliamo più feriti, né intimidazioni. Non possiamo più esercitare la nostra attività in queste condizioni. Indicateci pertanto cosa vi aspettate da noi in quanto mezzo di comunicazione.

Questa non è una resa. Né tantomeno mettiamo in dubbio il lavoro portato sinora avanti. Si tratta piuttosto di una tregua con chi ha imposta la forza della sua legge in questa città, perché si rispetti la vita di chi come noi si dedica al compito di informare.

Davanti al vuoto di potere che noi chihuahuensi respiriamo in generale, confinati in uno spazio in cui non ci sono garanzie sufficienti perché i cittadini possano vivere e esercitare un'attività con sicurezza, il giornalismo è diventato una delle professioni più rischiose e El diario ne è un perfetto esempio.

Nonostante i nostri obiettivi e la nostra missione di ben informare la comunità continuino ad essere gli stessi da 34 anni, in questo momento, noi che stiamo al fronte di questa impresa editoriale, non troviamo sensato continuare a mettere a rischio la sicurezza di tanti colleghi perché la loro preziosa vita sia utilizzata come mero veicolo di un messaggio, cifrato o meno, tra le diverse organizzazioni, o da parte di queste verso le autorità ufficiali.


Perfino nella guerra ci sono regole. E in qualsiasi conflagrazione esistono protocolli o garanzie per le bande in conflitto, per salvaguardare l'integrità dei giornalisti che seguono le vicende. Per questo lo ripetiamo, signori delle diverse organizzazioni del narcotraffico, spiegateci cosa volete da noi per poter smettere di pagare con la vita dei nostri colleghi.

E dal messaggio che uno di questi gruppi ha lasciato ieri mattina in una coperta posta all'angolo dell'Ejército Nacional y Tecnológico, si può dedurre che si attribuisce l'assassinio del reporter grafico Luis Carlos Santiago Orozco, registrato giovedì pomeriggio in un centro commerciale.

Il manifesto contiene un messaggio di minaccia diretto ai presunti capi e a un commissario, in cui si avverte che succederà lo stesso a un nostro fotografo se non devolveranno una certa quantità di denaro.

Da quando sono iniziati a venir fuori questi messaggi in coperte o scritte sulle pareti, El Diario non lo ha preso come un gioco, soprattutto perché si sono dimostrati veritieri giacché alcune di queste minacce si sono già concretizzate.
D'altro canto, a quasi due anni dall'assassinio del nostro collega Armando Rodríguez Carreón, siamo ormai fin troppo scettici che le autorità di giustizia competenti, che stanno per terminare il loro mandato, ci forniscano una spiegazione affidabile dell'accaduto.

Fin troppe sono state le allusioni e le promesse che il caso si sarebbe risolto senza che poi niente risultasse chiaro che, se, a questo punto, ci presentassero un presunto responsabile del crimine, quantomeno lo passeremo per il setaccio del dubbio.

Il giornale non si conformerà con il primo indiziato che verrà indicato come l'autore dell'attentato contro "El Choco", in quanto sappiamo che si sta cercando un capro espiatorio che si faccia carico della colpa di questo crimine, che per noi è tanto delicato.

Se con ciò pensate di allentare la pressione sul fatto, sappiate che risulterebbe assolutamente controproducente perché genererebbe una sfiducia ancora maggiore a quella che, difatto, già dilaga tra il grosso della cittadinanza dinanzi agli alti indici di impunibilità che si registrano.

Ad ogni modo perché El Diario accetti a questo punto un risultato, esso dovrebbe essere avallato tanto da organismi internazionali di giornalisti come da quelli per i diritti umani.

Quattro anni e mezzo fa, quando Felipe Calderón Hinojosa era ancora in campagna per la carriera presidenziale, si recò alle sedi de El Diario per offrirci un'intervista su diversi temi.

In quest'incontro con i dipendenti di questo mezzo, l'attuale presidente della Repubblica rispose a una domanda che gli si pose sulle garanzie che avrebbe offerto la sua amministrazione federale per il buon sviluppo della libertà di espressione e dei suoi rappresentanti.

Calderón rispose che "in caso di assassinio (di giornalisti), così come io godo di protezione per la mia condizione di candidato, ritengo che nella misura in cui un'attività si sviluppi in beneficio della comunità deve avere anch'essa dei meccanismi di protezione. Un giornalista che è stato minacciato o che stia indagando sulla criminalità organizzata, deve avere meccanismi di protezione speciale e sarebbe buono che si creasse una procura speciale in questa materia".

A due anni di distanza la storia è ben nota: il primo mandatario, per consentire la legittimazione che non ottenne nelle urne, si mise -senza una strategia adeguata- in una guerra contro la criminalità organizzata, senza conoscere tra l'altro né le dimensioni del nemico né le conseguenze che questo confronto avrebbe potuto apportare al paese.

Introdotti senza chiederlo nel conflitto, i messicani -e soprattutto i juarensi- si sono trovati alla deriva di decisioni erronee che li hanno trascinati nel mezzo, con risultati oggi conosciuti, e soprattutto aborriti dalla maggioranza.

In questo contesto, anche i giornalisti sono stati scaraventati in questa lotta senza controllo, senza che il presidente ripensasse a quel compromesso proferito nella sala riunioni de El Diario, perché i dipendenti dei mezzi d'informazione sono stati minacciati, hanno indagato sul crimine organizzato e sono stati nel mezzo della guerra come testimoni privilegiati, talvolta anche intimiditi, ma nemmeno così hanno mai ricevuto dal governo i "meccanismi di protezione speciale" prima indicati come indispensabili.

Le uniche armi di difesa che abbiamo avuto, noi che ci dedichiamo ad informare, sono state la ricerca della verità, l'uso della parola, cosi come le nostre macchine da scrivere (oggi computer) e le macchine fotografiche.

Lo stato come protettore dei diritti dei cittadini, e quindi dei comunicatori, è stato assente in questi anni belligeranti, anche quando sembra averlo fatto attraverso diversi mezzi che in pratica si sono rivelati fracassi assoluti.

Venerdì scorso, dopo il crimine del fotoreporter Luis Carlos Santiago Orozco, El Diario pubblicò un editoriale nel quale si enfatizzava questa assenza chiedendo "A chi chiediamo giustizia?". In questa stessa situazione si trovano i cittadini che non sanno a chi rivolgersi per chiedere aiuto.

Qualche giorno fa i collegi dei medici avanzarono la possibilità di fare uno sciopero dei loro servizi come misura di pressione verso i governi per ottenere delle risposte, dopo che alcuni dei loro colleghi sono stati sequestrati e alcuni assassinati nonostante si fosse pagato il riscatto.

Anche altri, come commercianti e impresari, hanno contemplato azioni di pressione, come indire uno sciopero nel pagamento di imposte e diritti, di cui vive il governo.
È tanta la mancanza di giustizia, tanta la desolazione e l'impotenza che sentono tutti i settori, che non sarebbe fuori luogo cominciare ad applicare azioni che realmente brucino a chi ha l'obbligo di fare di più per salvaguardare la sicurezza della città, dello stato e del paese.

Dal canto suo, il maggior incaricato della protezione dei cittadini si perde in sterili disquisizioni riguardo a se il Messico stia in una situazione uguale o peggiore della Colombia di 20 anni fa, affermazione pronunciata dalla segretaria di stato degli USA, Hillary Clinton, avallata da mezzi tanto seri come il Washington Post, o ad esempio, si incarica di offrire spettacolo ai connazionali con l'onerosa spesa utilizzata per le celebrazioni del Bicentenario, risorsa che sarebbe potuta essere meglio impiegata per rafforzare le pallide strategie di sicurezza.

Non contento di ciò, il primo mandatario pontifica sulla pace nel paese come se si trattasse di qualcosa di reale, inviando una lettera a ogni famiglia della nazione in cui, tra le varie cose e in forma assolutamente retorica, sottolinea che il bianco del colore della nostra bandiera nazionale è quello della "pace che abbiamo conquistato".

Questa affermazione è una beffa per i juarensi che affondano in un bagno di sangue e che di pace ne sanno davvero poco in questi tempi.

A Ciudad Juárez siamo arrivati al punto che è necessario -e urgente- adottare un altro tipo di misure per obbligare le autorità stabilite dalla legge, a fornire risposte più contundenti, perché la capacità di tolleranza di tanti cittadini a lutto ha già superato il suo limite.

El Dario assume per il momento la posizione manifestata nei primi paragrafi, di chiamare cioè i gruppi in conflitto perché esprimano ciò che vogliono da noi in quanto comunicatori.

Testo tradotto da
Fabiana Piretti

Fonte: PeaceReporter

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