di Gabriele Battaglia
Per quale motivo una maggiore flessibilità occupazionale dovrebbe risolvere i problemi economici dell’Italia? In fondo è questa la domanda inevasa, il grande non detto, quando si parla di riforma del mercato del lavoro.
E online ne parla con Valentina Cappelletti, funzionaria della Cgil di Bergamo, settore chimico-tessile, gomma-plastica.
L’articolo 18 sembra fagocitare tutta la discussione sulla riforma del lavoro. È “il” problema?
Dal punto di vista di chi guarda al mondo del lavoro semplicemente come un insieme di regole – il modo in cui ti posso assumere e ti posso licenziare – sicuramente l’articolo 18, una limitazione della libertà di licenziamento, è un problema. Per cui a più riprese si è cercato di modificarlo, dato che tutte le riforme fatte finora hanno flessibilizzato l’ingresso nel mondo del lavoro, ma non l’uscita.
Tuttavia a me non convince proprio il fatto che il problema sia il mercato del lavoro. Non adesso, ma alla luce delle trasformazioni avvenute negli ultimi 25 anni.Intervenire sul mercato del lavoro significa intervenire sulla frequenza con cui una persona cambia lavoro, ma non sul problema fondamentale: se trova lavoro e quale. Il problema che abbiamo in Italia è strutturale, cioè il venire meno di rapporti reali di lavoro: di unità di lavoro. Allora, si può anche dire che intervenire sul mercato del lavoro abbassa il tasso di disoccupazione, perché più persone si alternano sullo stesso posto di lavoro e quindi risultano ufficialmente occupate, anche se lavorano una settimana all'anno. Il punto è però che la postazione di lavoro è solo una: le occasioni professionali non si moltiplicano per effetto delle riforme sul mercato del lavoro.
Questo è un tema di cui si dovrebbe discutere in condizioni normali, lo è a maggior ragione oggi, mentre le unità di lavoro stanno diminuendo per effetto della contrazione di tutti i mercati su cui operano le nostre imprese, per non dire scomparsa.
Quindi io mi pongo questa domanda: fare per l’ennesima volta un intervento sulle regole risolve il problema dei posti di lavoro che diminuiscono? Credo proprio di no.
C’è poi un’altra questione. Tutte le riforme del lavoro sono sempre intervenute sull’offerta di lavoro, sui lavoratori: sul modo in cui vengono assunti e licenziati. Non è forse il caso di intervenire sulla domanda di lavoro, cioè sulle imprese? A nessuno viene il sospetto che siano inadeguate e che abbiano bisogno di una riforma del diritto societario e di quello fallimentare? Quello che ormai salta all’occhio è infatti che le ragioni strutturali della debolezza del nostro sistema riguardano anche le imprese: i loro rapporti con la proprietà, con i fornitori, con il credito e così via. Su questo non ho mai sentito nessuno che volesse intervenire con delle riforme.
Si dice che le imprese italiane siano troppo piccole e che “non fanno sistema”. Mi pare dal suo discorso che invece ci sia di più.
Un esempio che salta all'occhio in questa fase di crisi e che sta letteralmente facendo saltare in aria molte imprese: l’inesigibilità del credito. Io svolgo una commessa per un’impresa-cliente, mi pagano a 90 giorni sulla base del contratto – e già questa è un’anomalia tutta italiana che di fatto significa che io faccio credito a un’azienda, sono la sua “banca” – e poi magari quella non mi paga del tutto. Non posso fare nulla. Questo è un problema strutturale o no? Perché un fornitore, negli altri Paesi europei, può aspettarsi il pagamento di un servizio in tempi immediati e da noi no? È chiaro che se un’azienda straniera viene in Italia aspettandosi lo stesso regime di pagamenti che ha a casa sua, qui non ce l’ha. Questo è un limite all’investimento, anche io non verrei a lavorare qui. Se poi, come succede, questo parte addirittura dai pagamenti della pubblica amministrazione, stiamo freschi.
Questa è una posizione condivisa all’interno del sindacato?
Sì, a volte addirittura in forma rituale, perché lo si ripete da troppi anni. Quando si dice che bisogna intervenire sulle occasioni di crescita prima che sulle regole del mercato del lavoro, si intende proprio questo.
Al di là del controllo dei media da parte di determinati poteri forti, perché questo discorso non emerge con la stessa forza di quello sulla riforma del mercato del lavoro?
Per quanto riguarda il sindacato, il punto è che stiamo subendo l’agenda di altri: non siamo capaci di imporre le nostre priorità. Questo succede da anni ed è dovuto anche al fatto che nei governi che si sono succeduto negli ultimi anni la rappresentanza del mondo del lavoro è stata scarsa. Non a caso. Non dipende dal diktat dell’Europa il fatto che il dibattito sulla crescita non si imponga su quello che riguarda la riforma del lavoro. Perché prima della scorsa estate era lo stesso.
Per creare lavoro, come Cgil pensate a una reindustrializzazione del Paese?
Sulla possibilità di cambiare il modello di sviluppo italiano il nostro dibattito interno è meno approfondito. A mio avviso, dietro la richiesta di intervenire sulla crescita si nasconde ancora un modello produttivista, tipico della storia del sindacato. Naturalmente si è evoluto nel tempo: sappiamo benissimo che anche nella produzione italiana, la percentuale di servizi aumenta sempre più rispetto a quella dei beni industriali. Credo che ci sia però un punto indiscutibile: se il nostro Paese vuole mantenere la propria vocazione manifatturiera, deve puntare ai prodotti in cui la concorrenza non sia al ribasso. Per farlo, come del resto fa la Germania, bisogna incorporare nei prodotti una quantità di tecnologia e innovazione che ti protegga dalla concorrenza per qualche anno almeno.
Dati di ieri: export record per la Germania nel 2011.
Appunto. In una società complessa, il fabbisogno di prodotti industriali continuerà nel medio-lungo periodo. E sarà ulteriormente trainato dai consumi nei Paesi in via di sviluppo, dove il boom delle infrastrutture costituisce la vera domanda di prodotti industriali di alto livello.
Penso banalmente all’industria farmaceutica. Se un’azienda produce una molecola che non è più protetta e sta nella fascia bassa del mercato, chiunque la riproduce a prezzi sempre più bassi. Se la molecola è innovativa e offre un principio attivo in un campo ancora sperimentale, è evidente che sei più competitivo e il prezzo del prodotto potrà più facilmente remunerare lo sforzo tecnologico che c’è dietro. Questo vale sia per i prodotti di lago consumo, sia per quelli di consumo industriale: impianti, treni, linee di segnalazione, satelliti e così via. Di tutto questo, non ci sarà meno domanda in futuro.
Aziende italiane in grado di competere a questo livello non ce ne sono più: le ex eccellenze non sono più di proprietà italiana. Ormai sono tedesche, francesi, giapponesi o statunitensi. Sono loro che concorrono sul mercato indiano o su quello cinese, almeno finché quei Paesi non saranno in grado di farsi i prodotti da sé. Con tutto rispetto per la Moka Bialetti, che è un prodotto di design, di consumo spicciolo e diffusissimo, faccio fatica a pensare che ci faccia uscire dal problema della concorrenza e dei prezzi.
E arriviamo alla Fiat.
Esatto. Se confrontiamo le vendite del gruppo Fiat nei Paesi sviluppati con quelle degli altri grandi marchi, Fiat inevitabilmente perde. Vince in Sud America, dove infatti ha installato i suoi impianti, perché la domanda lì è meno sofisticata. Va benissimo ma non basta, perché se vendi solo nei Paesi in via di sviluppo, devi mantenere prezzi bassi. E quindi, inevitabilmente, vai a produrre lì.
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