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di Elena Gerebizza
Grandi infrastrutture per uscire dalla povertà. A parlarne è la Banca Mondiale, che in seguito al G20 di Cannes dello scorso novembre ha pubblicato una revisione della propria strategia sulle grandi opere, intitolata “ Trasformazione attraverso le infrastrutture”.
Il documento, preparato per la riunione dei capi di Stato ma reso pubblico solo di recente, articola in chiave “sviluppista” la decisione dei grandi del Pianeta di sostenere gli investimenti in grandi progetti nelle economie emergenti e nel Sud del mondo. Come in passato, la strategia della Banca Mondiale serve a giustificare investimenti multimilionari che porteranno a impatti notevoli sull’ambiente in territori dove le comunità locali sono in prima linea per difendere la terra in cui vivono da un modello economico che punta alla crescita infinita, senza nemmeno porsi il problema della redistribuzione per i milioni di persone che vivono sotto la soglia della povertà.
In maniera assolutamente acritica rispetto alle cause strutturali dell’attuale crisi economico-finanziaria e delle politiche che ne scaricano gli effetti sulle fasce più povere sia in Europa che nei Paesi poveri, il documento redatto dai super-economisti di Washington ricicla a pieno la vecchia agenda dell’istituzione. Insieme agli investimenti più “classici”, in cui la Banca promette però di prestare maggiore attenzione a migliorare l’efficacia in termini di obiettivi di sviluppo (considerando quindi anche variabili come lotta alla povertà, rispetto di genere, trasferimento di conoscenza e good governance – aree in cui la Banca mondiale non ha finora brillato), i banchieri di Washington propongono una nuova spinta per le famigerate partnership pubblico-privato. Partnership che dagli anni Novanta sono utilizzate come la punta di diamante per garantire privatizzazioni e liberalizzazioni nelle economie più povere. Qui la World Bank definisce il suo ruolo di catalizzatore di investimenti e “garante” del settore privato di cui copre il rischio, facendo così da leva sui mercati per attirare finanziamenti anche da parte di “nuovi donatori” tra le economie emergenti.
Ma la Banca si spinge oltre, e prevede la possibilità di creare “in house” un fondo di private equity che permetta all’IFC (il ramo della banca che presta al settore privato) di gestire direttamente capitali privati destinati al settore delle infrastrutture attraverso uno strumento che agisce sui mercati dei capitali. Un’evoluzione preoccupante, considerato che la logica a muovere attori finanziari di questo tipo non tiene conto dei bisogni reali delle comunità, ma guarda piuttosto a come l’investimento si riflette nelle quotazioni in borsa delle aziende che ne sono oggetto. Risponde cioè a una logica di profitto, cercando utili anche molto alti, che difficilmente si possono ottenere da investimenti in infrastrutture di base. Inoltre la maggior parte degli intermediari finanziari – inclusi quelli più attivi nelle economie del Sud – sono registrati in paradisi fiscali e quindi sfuggono a qualsiasi regolamentazione sui movimenti dei capitali. Quando si parla di rispetto dei migliori standard, oltre che della tutela dei diritti umani e dell’ambiente, la Banca Mondiale alza le mani, incapace di dimostrare i risultati positivi di investimenti canalizzati attraverso intermediari finanziari come i private equity, che già beneficiano di oltre la metà dei nuovi prestiti concessi dall’istituzione ai privati.
Il pacchetto infrastrutture è tra i temi centrali del prossimo G20 in Messico. Dal lato istituzionale l’intenzione è di procedere secondo la linea definita a Cannes. Alla società civile e ai movimenti del Sud spetta ora aprire uno spazio politico per ridiscutere un’agenda che rischia di fare deragliare miliardi di fondi pubblici e privati in un inghiottitoio che nulla ha a che fare con la trasformazione dell’economia mondiale in un modello più sostenibile, incentrato sulla redistribuzione della ricchezza e su una diversa gestione delle risorse naturali al di fuori dalla logica di mercato.
Fonte:http://www.crbm.org
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