Sulla difesa e valorizzazione del patrimonio culturale del nostro paese si contrappongono due visioni ideologiche: quella dei fautori della gestione pubblica e quella di chi vede con favore una transizione alla gestione privata e decentrata. Sono entrambe sbagliate e hanno portato a gravi fraintendimenti. La sfida sembra invece essere la costruzione di un nuovo umanesimo e delle condizioni istituzionali che lo consentano. Una questione che riguarda insieme, seppur in modi diversi, il pubblico e il privato e che pone alle scienze umane e all'economia un problema di pensiero.
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Il crollo della Domus dei Gladiatori a Pompei. Da internet |
La gestione pubblica del patrimonio culturale è oggi nel centro del mirino: inefficienze e inadeguatezze sono additate con crescente intolleranza, si reclamano soluzioni drastiche e semplificate. Da una parte si sostiene che l’Italia sia la cassaforte di un immenso giacimento di opere d’arte (si torna a parlare del 50 per cento del totale disponibile su scala mondiale), che queste opere, potenzialmente in grado di costituire un elemento di attrazione per tutto il mondo, siano mal gestite da un sistema pubblico incapace di valorizzarle (le tiene nei depositi, non comunica, non sviluppa adeguati servizi) e che il rimedio principe consista in una massiccia transizione a una gestione privata e decentrata, orientata a incrementare la capacità reddituale e di sviluppo del patrimonio culturale. L’attuale crisi della finanza pubblica rappresenterebbe quindi la grande opportunità per abbattere i lacci pubblici, spezzando finalmente le rendite, le difese corporative e conservatrici e le consorterie accademiche.
È una rappresentazione chiara, facile, non priva di ragioni, che si è radicata come un “discorso” grazie alla contrapposizione con una posizione opposta, altrettanto ideologica, tesa a collocare il patrimonio culturale in un’area di intoccabile sacralità garantita dallo Stato, nella quale si staglia il valore auratico e incommensurabile dell’arte e della ricerca storico archeologica. I fautori di questa posizione si oppongono frontalmente a qualunque ritocco della capacità di spesa dello Stato e tendono a negare ogni ragione di mutamento.
Entrambe queste posizioni sono errate nella loro unilateralità e hanno condotto a gravi fraintendimenti.
LA DIMENSIONE DEL PATRIMONIO
Ogni allusione quantitativa alla percentuale di patrimonio mondiale detenuta dall’Italia è sostanzialmente frutto di fantasia. Il patrimonio culturale è una quantità continuamente variabile e in crescita. Nel caso italiano, per legge, tutto è potenzialmente patrimonio, spetta alle sovrintendenze designare ciò che deve essere incluso ufficialmente in questo ambito e quindi sottoposto a speciali condizioni giuridiche, in termini di conservazione e alienabilità. Questa attività è incrementale e permanente, la sua inventariazione è sempre in corso. In altri termini non è possibile confrontare con esattezza, ad oggi, la dimensione del nostro patrimonio con quello di altri paesi.
LA NATURA DEL PATRIMONIO
Il patrimonio culturale è composto solo in misura relativamente marginale di opere o capolavori d’arte. Il caso italiano è affascinante e particolare proprio perché il patrimonio possiede una straordinaria stratificazione e diffusione, non è stato – almeno fino a tempi recenti – oggetto di pratiche iconoclastiche, la sua evoluzione è avvenuta per transizioni leggibili. Il suo valore è determinato dalla sua sistematicità (include tutte le epoche storiche di civiltà) e pluridimensionalità (oggetti, artifatti, strutture, infrastrutture eccetera).
L’ECONOMICITÀ DEL PATRIMONIO
Questa sistematicità fa sì che il patrimonio sia parte sostanziale della vita economica del paese, ma in modo molto più quotidiano, silenzioso e non apparente di quanto si possa pensare. È, per lo più, composto da case, chiese, palazzi, strade, paesaggi. Gli oggetti d’arte capaci di attirare di per sé attenzione sono relativamente pochi rispetto al totale ed è per lo più l’insieme a costituire un valore imponendo, però, pesanti vincoli. Per fare un esempio: la stanza degli sposi del Mantegna a Mantova , un oggetto affrescato di 35 metri quadri, trae il suo senso e il suo valore per il fatto di inserita in Palazzo Ducale, un complesso monumentale di oltre 30mila metri quadri, a sua volta parte di piazza Sordello nella quale vi sono altri palazzi e chiese da mantenere. E la piazza, a sua volta, è prospiciente a un lago con un paesaggio culturale e a un centro urbano pieno di riferimenti medievali e rinascimentali, di collezioni, di monumenti, che sono parte della vita della città e che sovrastano dimensionalmente qualunque intenzione turistica. È un sistema poco mobile, poco flessibile e manovrabile, delicato e costoso, da mantenere come un insieme, con il quale la città deve fare i conti per ogni scelta di modernizzazione. E questo vale per la grande maggioranza della ricchezza storica italiana. La dimensione economica del patrimonio sta nella sua partecipazione quotidiana alla vita del paese. Il turismo, seppur appariscente, è parte minore.
IL RAPPORTO PUBBLICO-PRIVATO
La moltiplicazione di situazioni di analogo tenore in Italia indica come sia errato procedere contrapponendo azione pubblica e azione privata e come sia falso immaginare che ai privati spetti la gestione delle opportunità mercantili (la valorizzazione) mentre al pubblico spetti la tutela e la conservazione. La realtà è più felice e varia. Il contributo più efficace e tradizionale dei privati sta, ed è stato storicamente, infatti, soprattutto nella tutela e nella conservazione, perché i privati usano e mantengono i palazzi, ville, castelli, case, collezioni, facciate (si veda l’esempio dei Fai). Il privato, inoltre, per sua stessa natura, può svolgere questa azione su scala internazionale come mostra il caso eccellente dell’intervento Packard su Ercolano. Di converso, è importante che il pubblico abbia influenza sulla valorizzazione per tener conto degli interessi generali delle città, per evitare intasamenti, distribuire i flussi e le opportunità commerciali riducendo rendite di posizione, garantire accessibilità e diffusione della cultura. Il futuro sta nella nostra capacità di trovare modi proficui di convergenza tra azione pubblica e privata. Lo smantellamento delle competenze del sistema delle sovrintendenze perpetrato con acribia equanime dalle legislature che si sono succedute dalla metà degli anni Novanta in poi è certamente un errore e un ostacolo alla soluzione del problema.
Poste queste premesse, quali sono i veri problemi da affrontare?
I DATI
Il primo elemento di cui tener conto è che ogni esercizio diagnostico e analitico riguardo alla situazione del patrimonio culturale del paese è drammaticamente limitato dalla situazione dei dati disponibili. È necessario e urgente uno sforzo in questa direzione. E’ urgente uno sforzo in questa direzione. Lo si è cominciato, ma esso deve crescere rapidamente sul piano quantitativo e qualitativo. Nell’attesa sarà molto difficile andare oltre soluzioni di emergenza.
IL PERSONALE
Il sistema si dovrà strutturare su una integrazione di logiche e competenze di natura pubblica e privata. Questo implica che è urgente mettere mano in campo culturale, come in altri campi della pubblica amministrazione, non solo al sistema degli incentivi, ma anche e soprattutto al nodo del pubblico impiego, all’introduzione di sistemi meritocratici, all’attrazione di competenze sofisticate di natura gestionale e culturale, alla formazione di sistemi organizzativi moderni. Un’opera di ristrutturazione che dovrà essere condotta con pazienza, ma che non è più procrastinabile.
IL RAPPORTO CON LO SVILUPPO
La difesa della cultura negli ultimi anni, in modo un po’ paradossale, si è appoggiata all’idea che essa sia profittevole in senso commerciale, che produca economie, che sia utile all’innovazione, alla crescita dell’occupazione e all’attrazione di talenti nelle città. Tutto questo non è sbagliato, gli indotti delle produzioni culturali e della gestione del patrimonio producono conseguenze economiche significative sul piano dei consumi e degli investimenti ed è importante che siano massimizzate con decisione. Ma questa prospettiva, se assunta unilateralmente, è falsante: la cultura e le politiche culturali agiscono soprattutto nel dar voce, nel comporre sistemi di valori e di immaginari, nel favorire il mutuo riconoscimento sociale e la fiducia. E’ fonte del capitale sociale che sostiene la vitalità economica e garantisce la riproduzione di una sfera pubblica democratica.
LE POLITICHE CULTURALI
Il riconoscimento di questa profondità pone ovviamente problemi di valutazione e misurazione, ma ancor di più impone di considerare lo specifico delle politiche culturali distinguendole dalle politiche economiche. La cultura serve, infatti, non in quanto fattore di produzione, ma come segno di civiltà. Essa agisce politicamente sulla scarsità fondamentale della modernità globalizzata che riguarda la sfera pubblica e la riduzione della violenza: la povertà degli immaginari e del senso, lo smarrimento individuale, la caduta dei valori, e la difficoltà di qualificare, sul piano etico, l’orizzonte di una umanità capace di raccogliere e pacificare le differenze. Se queste sono le sfide poste oggi dalla crisi della gestione del patrimonio culturale, è ovvio che la risposta non può essere semplicemente quella di ridurre le risorse. Piuttosto sembra necessario aumentare il livello degli investimenti per raggiungere una migliore sostenibilità. Un percorso possibile, anzi necessario, che passerà da una profonda trasformazione del sistema che dovrà assumere con più radicalità le sfide della relazione condivisa con il senso, con il compito del possibile umanesimo contemporaneo, con l’edificazione delle condizioni istituzionali che lo rendano sostenibile. Un problema che riguarda ovviamente insieme, seppur in modi diversi, il pubblico e il privato e che pone alle scienze umane - e all’economia - un problema di pensiero.
di Stefano Baia Curioni
Fonte: Lavoce.info
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