L’esercito Usa è pronto a colpire (con pallottole e missili veri) gli Stati che cercheranno di mettere fuori uso i computer americani.
Cyberattacchi, guerra reale. Non è un gioco di parole ma la nuova presa di posizione degli Usa, riportata in esclusiva sul Wall Street Journal. Secondo il Pentagono i sabotaggi informatici che arrivano da un altro Paese possono costituire un vero e proprio atto di guerra. E quindi giustificare una reazione militare, missili e pallottole comprese.
La nuova cyber strategy del Pentagono, contenuta in un documento ufficiale che sarà presentato nei prossimi mesi, è il primo vero tentativo di gestire il cambiamento delle minacce terroristiche, ma anche una presa di coscienza del rischio connesso ad attacchi cibernetici in grado di minare la sicurezza nucleare, la rete metropolitana o l’intera economia statunitense.
Forse un caso, ma la decisione (almeno teorica) è arrivata appena un giorno dopo la notizia che la Lockheed Martin, una delle più importanti aziende militari americane, era stata attaccata dagli hacker che erano riusciti a far breccia grazie a delle falle nel sistema di controllo di quella che dovrebbe essere una delle maggiori e più rilevanti aziende del settore Difesa Usa.
La presa di posizione del Pentagono, però, fa nascere non pochi dubbi. A partire da come si possa essere davvero sicuri della provenienza di un attacco o, anche, quali parametri utilizzare per stabile se un sabotaggio informatico sia tale da giustificare un’azione militare. Domande che sono già argomento di discussione anche fra i militari statunitensi.
L’idea alla base della decisione del Pentagono sta tutta in una parola chiave: equivalenza. Ossia se il cyberattacco causa morte, danni e devastazione a livelli elevati (tanto quanto potrebbe causarne un “classico” attacco militare) allora l’uso della forza sarà considerato.
Le convinzioni degli Usa sono contenute in un documento di circa 30 pagine in cui il Pentagono spiega nel dettaglio la classificazione dei vari “stadi” di una cyberminaccia e avanza ufficialmente (per la prima volta) la tesi che attacchi informatici molto sofisticati ai danni di un’intera nazione – come per esempio hackeraggi capaci di mandare in black out l’intera rete elettrica – possano essere architettati e portati a termine solo con l’aiuto di uno Stato.
Un’idea che, con molta probabilità, è retaggio del pesante attacco subito proprio dal Pentagono nel 2008 e che gli Usa avevano identificato come proveniente dalla Russia, senza però specificare ufficialmente il possibile coinvolgimento del governo moscovita, che però ha sempre negato.
“Parlare di dichiarazione di guerra nel caso di cyberattacchi è un’espressione politica, non una terminologia legale”, ha sottolineato un general maggiore dell’Air Force in pensione, precisando però che diventa equiparabile se “applica gli stessi principi di qualsiasi tipo di attacco nel momento in cui gli effetti prodotti sono gli stessi”.
Gli Usa sembrano intenzionati a trattare con gli alleati per valutare le strategie più adatte per rispondere alla nuova minaccia rappresentata dai pirati informatici pronti a colpire non solo il Pentagono o la Difesa, ma anche telecomunicazioni, banche e servizi pubblici. Ma mentre gli Stati Uniti cercano di difendersi dalle minacce informatiche, non si sono attenuati i dubbi che proprio Washington sia coinvolto nell’attacco informatico di alcuni mesi fa contro i nascenti impianti nucleari in Iran.
Fonte:http://daily.wired.it
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