di Carlo Musilli
Tra i misteri d'Italia c'è anche la benzina. L'Istat ha certificato che il mese scorso il prezzo della verde è salito del 20,8% su base annua, il rincaro più alto dal 1996. Nello stesso periodo il costo del diesel è cresciuto del 20,5%. Viene da pensare che nel frattempo il prezzo del petrolio si sia impennato, invece no: è addirittura sceso, anche se di poco (-1%, a circa 119 dollari per un barile di Brent, l'oro nero europeo). Insomma, mentre il prezzo della materia prima scende, quello alla pompa sale. Quale stregoneria italica è mai questa?
Per sciogliere l'enigma partiamo dal punto più ovvio, le tasse. Se prendiamo come riferimento il prezzo di un euro e novanta al litro (ma in alcune zone d'Italia è stato ampiamente superato il muro dei due euro), quasi la metà del rincaro sulla benzina nostrana (pari a 38 centesimi in un anno) è dovuto all'aumento dell'Iva. A pesare è il passaggio dal 20 al 21% dell'aliquota ordinaria, un incremento stabilito lo scorso dicembre dal primo decreto del governo Monti, il salva-Italia.
Per sciogliere l'enigma partiamo dal punto più ovvio, le tasse. Se prendiamo come riferimento il prezzo di un euro e novanta al litro (ma in alcune zone d'Italia è stato ampiamente superato il muro dei due euro), quasi la metà del rincaro sulla benzina nostrana (pari a 38 centesimi in un anno) è dovuto all'aumento dell'Iva. A pesare è il passaggio dal 20 al 21% dell'aliquota ordinaria, un incremento stabilito lo scorso dicembre dal primo decreto del governo Monti, il salva-Italia.
Fin qui nessuna sorpresa. La questione però si complica quando arriviamo a parlare di accise, che hanno pesato per un altro 27% sull'impennata dei prezzi. Cosa sono? Con il termine "accisa" si intende un'imposta indiretta sulla fabbricazione e sulla vendita dei prodotti di consumo. La paghiamo, ad esempio, anche su alcolici e tabacchi.
Per calcolare un'accisa si usa come criterio la quantità dei beni prodotti e commercializzati, mentre l'Iva ha a che fare con il loro valore. Siccome però l'accisa contribuisce a determinare il valore stesso di questi beni, alla fine paghiamo l'Iva anche sull'accisa. E voilà, ecco a voi il primo gioco di prestigio all'italiana: la tassa sulla tassa.
Ma non è finita. Oltre ai soldi chiesti dallo Stato, ci sono quelli che vanno in tasca alle compagnie. Messi di fronte allo strano caso (più frequente di quanto si pensi) dei prezzi al consumo che salgono mentre quelli alla produzione calano, di solito i petrolieri si difendono parlando del tasso di cambio. Un vero e proprio ritornello usato ciclicamente per difendersi dalle accuse di eccessiva speculazione.
Il principio è semplice e, nella sostanza, vero: se l'euro si indebolisce rispetto al dollaro, il prezzo della benzina sale, perché occorrono più soldi per acquistare ogni singolo barile di greggio. In effetti, fra aprile 2011 e aprile 2012, il cambio è sceso da 1,40 a 1,32, ma il meccanismo ha pesato per appena il 10% sul rincaro subito dagli italiani. Questo significa che, fatti due conti, resta da imputare alla pura speculazione una fetta ancora più ampia, pari al 13%.
Almeno a questo fattore il governo avrebbe potuto mettere un freno, ma ha deciso di non farlo. L'occasione di introdurre maggiore concorrenza nel settore è stata persa con il decreto liberalizzazioni. Il progetto iniziale era di consentire ai gestori delle pompe di rifornirsi da più d'una compagnia, ponendo fine ai contratti d'esclusiva e dando vita ai cosiddetti impianti "multimarca".
All'ultimo minuto però il coraggio è venuto meno. Al primo comma, l'articolo 17 del decreto ("Liberalizzazione della distribuzione dei carburanti") recita così: "I gestori degli impianti di distribuzione dei carburanti che siano anche titolari della relativa autorizzazione petrolifera possono liberamente rifornirsi da qualsiasi produttore o rivenditore (...). A decorrere dal 30 giugno 2012, eventuali clausole contrattuali che prevedano per gli stessi gestori titolari forme di esclusiva nell'approvvigionamento cessano di avere effetto per la parte eccedente il 50% della fornitura complessivamente pattuita e comunque per la parte eccedente il 50% di quanto erogato nel precedente anno dal singolo punto vendita. Nei casi previsti dal presente comma le parti possono rinegoziare le condizioni economiche e l'uso del marchio".
Secondo le sigle sindacali di categoria Faib Confesercenti e Fegica Cisl, con questo intervento "il Governo si è limitato a gettare fumo negli occhi dell'opinione pubblica 'liberando' solo chi era già libero, cioè i proprietari gli impianti. Alla fine il provvedimento non riguarda più di 500 impianti su 25.000.
Per il resto, il controllo dei petrolieri sull'intera filiera, 'dalla culla alla tomba', che consente loro di mantenere in Italia i prezzi più alti d'Europa, viene completato definitivamente con un regalo inaspettato: ogni compagnia potrà fissare le condizioni contrattuali che vuole, con ogni singolo benzinaio, senza nessuna tutela, nessuna contrattazione, nessuna mediazione collettiva".
Ma al di là di quest'ultimo buco nell'acqua in fatto di concorrenza, dobbiamo ricordare anche che i rincari della benzina sono sempre stati considerati dai nostri governanti come il modo più veloce e sicuro di batter cassa. Una storia iniziata ancor prima della Repubblica. Tempo fa il deputato Claudio Barbaro (Fli) ha presentato un'interrogazione alla Camera in cui chiedeva di eliminare le accise. Nel suo intervento l'onorevole ha ricordato una serie di incrementi decisi nel passato e mai più soppressi. Si parte addirittura dal 1935, quando fu stabilito un aumento di 1,9 lire. Il motivo? La guerra in Etiopia.
Fonte: http://www.altrenotizie.org
Nessun commento:
Posta un commento