Nei primi 12 anni di vita un bambino può essere sottoposto fino a 39 diverse vaccinazioni. Ecco come districarsi tra salute, diritti e interessi multinazionali.
“Ogni anno in Italia nascono circa 500mila bambini, e il 95% di loro nei primi 15 mesi di vita viene sottoposto a 27 vaccinazioni (richiami inclusi), tra ‘obbligatorie’ e raccomandate, che diventano 39 nei primi 12 anni, considerando quelle di ultima generazione previste nel prossimo calendario nazionale delle vaccinazioni. Se a queste si aggiunge la vaccinazione contro l’influenza proposta ogni inverno ai bambini ‘a rischio’ e il fatto che allo studio c’è un altro vaccino per l’età pediatrica -quello contro il rotavirus, una forma virale di gastroenterite- il quadro diventa un po’ inquietante”. Seduto alla sua scrivania color testa di moro, il dottor Eugenio Serravalle, trent’anni come specialista in pediatria preventiva, puericultura e patologia neonatale presso la Divisione pediatrica dell’Ospedale di Cisanello (Pisa), stringe tra le dita un fascicolo di numeri e tabelle. “Stiamo allevando una generazione di bambini super-vaccinati”. Lui la pensa così. È difficile anche per un genitore ricordare tutte le vaccinazioni, un po’ perché tra sigle e numero di richiami è facile confondersi, un po’ perché il numero dei vaccini pediatrici proposti dal Sistema sanitario nazionale, negli ultimi anni, è molto cresciuto. Lo Stato spende 200 milioni di euro all’anno in soli vaccini, più della metà per quelli pediatrici e forse prossimamente ne spenderà anche di più. Basta guardare il “Piano nazionale vaccinazioni” -emanato dal ministero della Salute e approvato dalle tre società scientifiche Fimp (Federazione italiana medici pediatri), Sip (Società italiana di pediatria) e Siti (Società italiana di igiene)- che stabilisce i tempi delle vaccinazioni obbligatorie e raccomandate. Quello attualmente in vigore in Italia risale al biennio 2005-2007 (scaduto ma valido finché non sarà operativo quello nuovo) e prevede le quattro vaccinazioni “obbligatorie” stabilite dalla legge 42 del 1999: antidifterica, antitetanica, antipoliomielitica e antiepatite B, cui si aggiungono ormai di routine quelle contro pertosse ed haemophilus influenzae B. Insieme, questi sei vaccini vengono proposti in un’unica soluzione (“vaccino esavalente”), a 3, 5 e 11 mesi, con un richiamo a 5/6 anni e uno a 14. L’unica differenza è che per pertosse ed haemophilus B i genitori devono firmare il “consenso informato” in cui si assumono la responsabilità della scelta. Lo stesso per gli altri tre vaccini raccomandati, contro parotite, morbillo e rosolia, somministrati tra il 14° e il 15° mese, con un richiamo a 5/6 anni. Posto che ormai nella pratica l’obbligo vaccinale non esiste più nemmeno per le quattro vaccinazioni indicate nella legge del ‘99 (vedi box a pagina 47) l’elenco di quelle raccomandate -che rientrano nei Livelli essenziali di assistenza sanitaria (Lea) e che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a garantire gratuitamente- è destinato ad allungarsi. Il nuovo “Piano nazionale vaccinazioni” 2010-2012, all’esame della Conferenza Stato-Regioni e in vigore a breve, obbligherà le Regioni a fornire gratuitamente a tutti i bambini anche altri vaccini: l’anti-pneumococco (contro alcune meningiti, polmoniti e otiti), l’anti-meningococco C (contro altri tipi di meningite), l’anti-varicella e l’anti-papillomavirus (o HPV, contro il tumore al collo dell’utero). Questi quattro vaccini sono già disponibili sul mercato, ma la scelta di dispensarli gratuitamente per ora spetta alle singole Regioni. Con il nuovo Piano le Regioni saranno tenute a fornire i vaccini gratuitamente a chi li richiede, in maniera omogenea, da Nord a Sud. Ma, se tutte queste vaccinazioni sono utili ai nostri bambini, viene spontaneo chiedersi come mai il nuovo Piano vaccinazioni arrivi in ritardo di quattro anni. “Il salto temporale è dovuto a ragioni politiche ed economiche -spiega Maria Edoarda Trillò, pediatra e direttore del Dipartimento materno infantile dell’Asl Roma C-. Nel periodo (maggio 2008-dicembre 2009, ndr) in cui il ministero della Salute è stato accorpato al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, nella persona del ministro Maurizio Sacconi, la stesura del nuovo Piano vaccinazioni è andata a rilento, perché a fronte dei nuovi vaccini disponibili, mancavano le coperture finanziarie per garantirne la gratuità da parte del Sistema sanitario nazionale”. Nell’ottobre 2009, Fimp e Siti denunciarono il ritardo del nuovo calendario vaccinale, definendolo inaccettabile e pericoloso. “Riteniamo molto grave e inopportuno -dissero in un comunicato- che il ministero del Lavoro, Salute e Politiche sociali e i suoi organismi tecnici ritardino ancora l’emanazione di provvedimenti necessari e indilazionabili la cui assenza sta impedendo il raggiungimento di migliori coperture vaccinali per malattie per le quali esistono nuovi vaccini di provata efficacia. Il non utilizzare questi vaccini rappresenta realmente un inutile rischio per la salute dei bambini”. A dicembre 2009 venne istituito il nuovo ministero della Salute e la competenza in materia passò a Ferruccio Fazio, ex vice ministro di Sacconi. Con il 2010 i lavori sono ripartiti, a luglio il nuovo Piano vaccinazioni era definito e la bozza di documento è ora ferma in attesa di approvazione alla Conferenza Stato-Regioni. Se tutto va bene, tra qualche mese entrerà in vigore con la raccomandazione delle quattro nuove vaccinazioni. Ed è sulla necessità di tutte queste vaccinazioni che il mondo medico si divide: c’è chi assicura che più vaccinazioni siano sinonimo di maggiore prevenzione e chi, come il dottor Serravalle, sostiene che ci sia un abuso dello strumento vaccinale. Sip, Fimp e Siti approvano e sottoscrivono senza riserve il calendario ministeriale, perché, come spiega il dottor Giuseppe Mele, presidente nazionale Fimp “le vaccinazioni sono uno strumento semplice, efficace e sicuro per proteggere la popolazione, in particolar modo i bambini, contro pericolose malattie con importanti complicanze o potenzialmente mortali, per le quali non esiste una terapia sempre efficace. Neppure la scoperta degli antibiotici, ha migliorato la qualità della vita dell’uomo quanto le vaccinazioni, è importante farlo sapere”. A inizio 2011 la Fimp ha lanciato la prima campagna per la divulgazione del Calendario vaccinale nazionale, per informare le famiglie dell’importanza della profilassi: “Conosci meglio il Calendario vaccinale nazionale. Proteggi i tuoi bambini” è il claim e per attuarla la federazione ha distribuito negli studi dei pediatri di famiglia, opuscoli e manifesti. Il professor Paolo Villari, ordinario di Igiene alla Sapienza di Roma e segretario generale della Siti, ribadisce la validità del Calendario vaccinale in vigore e anche di quello che verrà, spiegando che i criteri per decidere se vale la pena raccomandare un vaccino sono tre: “Deve essere efficace, sicuro e costo-efficace”. Un vaccino è efficace quando garantisce una buona copertura (in termini percentuali) delle probabilità di contrarre una determinata malattia; è sicuro quando i benefici a lungo termine superano gli effetti collaterali; è costo-efficace quando i due criteri sopra detti fanno sì che ciò che il sistema sanitario spende per garantirli alla popolazione siano soldi ben spesi. “Per valutare la bontà di un Piano vaccinazioni -continua il professor Villari- non ha senso guardare se la Sanità spende poco o tanto, ma se spende bene, e le vaccinazioni del calendario sono soldi spesi bene. Portarle allo stesso livello di copertura in tutte le Regioni è un obiettivo auspicabile”.
Di diverso parere sono i pediatri delle associazioni “indipendenti”, oltre al dottor Serravalle, con una posizione più critica. Rosario Cavallo, del gruppo prevenzione malattie infettive della Acp (Associazione culturale pediatri) spiega: “La nostra posizione riconosce le vaccinazioni come strumento prezioso e insostituibile, ma non tutte sono uguali. In particolare, negli ultimi anni sono state proposte con motivazioni che fanno pensare più a regole di marketing che non al rispetto dell’attento vaglio scientifico. Ci sono perplessità riguardo al fatto di raccomandarle a tutta la popolazione, e i tempi stretti con cui vengono studiati e approvati i nuovi vaccini sono nemici della chiarezza e della correttezza”. Perché una delle grosse perplessità di medici e pediatri “indipendenti” riguarda proprio la scarsa sperimentazione nel tempo, la mancata valutazione degli effetti collaterali e la parziale efficacia di alcuni vaccini di “ultima generazione”. In questo senso, l’anti-pneumococco, immesso sul mercato in Italia alla fine degli anni 90, fu il primo vaccino ad essere considerato “prematuro” da molti operatori del settore. Il vaccino arrivava dagli Stati Uniti, dove esistevano dati che denunciavano un’importante percentuale di infezioni da pneumococco, ma approdava in Italia, che invece di dati sull’argomento era sprovvista perché i casi di infezione rilevati non erano ancora numericamente così significativi da far pensare alla necessità di un vaccino. “La cosa sospetta -racconta la dottoressa Luisella Grandori, pediatra ex responsabile area vaccini della Regione Emilia Romagna e coordinatrice del movimento “No grazie, pago io” (www.nograziepagoio.it)- fu che al posto di rimandare l’approvazione del vaccino per mancanza di giustificazione, iniziò la caccia ai dati che ne confermavano la necessità”. Dal ministero della Salute all’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) fino ai più piccoli distretti sanitari, la ricerca della conferma che quel vaccino fosse davvero indispensabile diventò una priorità. Alla fine fu deciso che nel nuovo Piano vaccini (2005-2007) l’anti-pneumococco fosse raccomandata (e gratuita) per i bambini ad alto rischio (affetti da malattie croniche o immunodeficienza, come previsto nella circolare 11 del 19 novembre 2001 della Direzione generale per la prevenzione del ministero della Salute). Per tutti gli altri, che fossero le Regioni a decidere autonomamente. Il vaccino in questione si chiamava “Prevenar” ed era prodotto dalla Whyeth, ed è quello tutt’ora in uso. “Ancora adesso -spiega la dottoressa Grandori- non ci sono le evidenze scientifiche che dicono che la vaccinazione anti-pneumococco sia efficace: il vaccino disponibile copre solo 13 sierotipi su 90, non abbastanza. Inoltre, e questo è dimostrato, si innesca un meccanismo del rimpiazzo per cui i sierotipi non attaccati dal vaccino si modificano e prendono il posto di quelli eliminati. Non è ancora un vaccino intelligente, come sarebbe quello che agisce su tutti i sierotipi, ancora non disponibile”. Secondo Maria Edoarda Trillò, pediatra e direttore del Dipartimento materno infantile dell’Asl Roma C, il meccanismo del rimpiazzo è un effetto collaterale da non trascurare, a tal punto che un vaccino che provoca questo effetto non può essere definito “sicuro”. “Bisogna prevedere quali cambiamenti si determineranno nell’ambiente con l’introduzione di un determinato vaccino: se infatti non si riesce a impedire del tutto la circolazione di un virus o un batterio, in tutte le sue varietà (o sierotipi), si può spostare la malattia dalla popolazione infantile a quella adulta, oppure si può favorire la sostituzione di quel virus o quel batterio con altri, contro i quali non abbiamo vaccini”. Percorsi un po’ frettolosi come quelli che hanno portato ad approvare il vaccino anti-pneumococco ancor prima che ci fossero dati scientifici che ne confermassero l’efficacia e la sicurezza fanno inevitabilmente venire il dubbio che, oltre alle emergenze epidemiologiche, ci siano altri fattori che influiscono sull’approvazione di nuovi vaccini e nuovi farmaci, per esempio il marketing delle industrie farmaceutiche. “Fino agli anni 90 le vaccinazioni erano una cosa seria -continua la dottoressa Grandori-; erano le autorità sanitarie che, rilevata una patologia diffusa ad alto rischio, dati e casi clinici alla mano, chiedevano alle case farmaceutiche di studiare uno specifico vaccino. Ora accade il contrario: malattie e vaccini vengono approvati in base agli interessi e ai poteri dell’industria” Dall’Oms (che sulla salute decide a livello mondiale), agli organismi di vaccino e farmaco-vigilanza (l’Aifa per l’Italia, l’Ema per l’Europa, la Food and Drug Administration per gli USA), fino ai ministeri della Salute a livello mondiale, tutti hanno sedute nelle loro Commissioni tecniche persone che, più o meno direttamente, hanno forti legami con l’industria farmaceutica. Ne risente la trasparenza della ricerca stessa: non solo gli studi clinici sulla sicurezza degli ultimi vaccini non sono esaurienti, ma sono anche pochi quelli condotti da ricercatori indipendenti. In Italia, secondo il ministero della Salute, il 76% della sperimentazione clinica è condotta con il sostegno economico delle aziende farmaceutiche.
Da Farmindustria, l’associazione delle imprese del farmaco aderente a Confindustria, i dati arrivano anche più precisi: in Italia operano 6.150 ricercatori ai quali nel 2010 sono stati affidati 1,2 miliardi di euro di investimenti in ricerca e sviluppo, che le imprese sostengono per oltre il 90%, autofinanziando di fatto quasi integralmente la ricerca farmaceutica. Non è tranquillizzante nemmeno sapere che ogni anno vengono pubblicati sulle riviste scientifiche mondiali più di 2 milioni di articoli, ma circa il 60% delle ricerche fatte sui nuovi vaccini non viene reso noto, perché presenta dati sfavorevoli agli obbiettivi fissati dal marketing. “Non c’è ombra di dubbio che la pressione delle case farmaceutiche sugli organismi di controllo sia enorme -dice Vittorio Agnoletto, medico, ex-europarlamentare-. Gli esperti che siedono nei gruppi di studio dell’Oms sono gli stessi ricercatori e consulenti delle case farmaceutiche. Accade a tutti i livelli perché non esiste l’incompatibilità del doppio incarico”. In Italia solo Rosy Bindi, durante il suo mandato come ministro della Sanità (maggio 1996 - aprile 2000), accogliendo un’istanza dello stesso Agnoletto, pose l’incompatibilità del doppio incarico, ma il suo successore Umberto Veronesi si affrettò a cancellarla appena divenne ministro. “La ricerca indipendente andrebbe sostenuta con finanziamenti pubblici -dice il professor Villari-, ma se questi mancano e le case farmaceutiche sono in grado di garantire l’innovazione tecnologica e la ricerca, ben vengano i loro finanziamenti”. Certo, non è scientificamente dimostrabile che ricerca e profitto siano incompatibili, ma è sicuro che tutti saremmo più contenti di sapere che chi approva i vaccini destinati ai bambini di pochi mesi, è lontano dal qualunque interesse personale. O forse in un settore che fattura 700 miliardi di euro a livello mondiale è pura utopia. Pensare che quando il medico statunitense Jonas Salk scoprì il vaccino anti-polio, dopo sette anni di ricerca ed esperimenti, non volle sentir parlare né di brevetti né di profitto: “Il vaccino non è mio -disse a un giornalista-, è di tutti. Lei brevetterebbe il Sole?”. Era il 1955 ed erano tempi molto lontani.
Le quattro d'obbligo In Italia una legge del 1999 sancisce l’obbligatorietà di quattro vaccinazioni (difterite, tetano, epatite B, poliomielite) con sanzioni per i genitori che non sottopongono a vaccinazioni i loro figli. La legge è ancora in vigore, ma le multe non vengono più applicate: ogni genitore può fare “obiezione”, cioè decidere di non sottoporre il proprio figlio alle vaccinazioni obbligatorie. Nemmeno la scuola dell’obbligo può rifiutare i bambini non vaccinati, perché il diritto all’istruzione prevale sull’obbligo delle vaccinazioni. Solo il Trentino e il Friuli Venezia Giulia sanzionano ancora chi non vaccina i propri bambini, mentre il Veneto ha ufficialmente sospeso l’obbligatorietà. Nel resto d’Europa, solo alcuni Paesi prevedono vaccinazioni obbligatorie, come Francia (anti difterite, tetano, poliomelite e tubercolosi), Grecia e Portogallo (anti difterite, tetano e poliomelite) e Belgio (anti poliomelite). La maggior parte delle nazioni europee ha scelto la volontarietà della pratica vaccinale, ma il quadro si frammenta nell’ambito degli stati stessi. Per i 27 Paesi dell’Unione Europea, infatti, esistono più di 27 calendari vaccinali, perché in ben 8 di questi i programmi cambiano da Regione a Regione, come in Italia. Le differenze non riguardano solo il numero di vaccinazioni raccomandate, ma anche il tipo e, per lo stesso vaccino, il numero di richiami previsti. due casi, due dubbi Oltre all’anti-pneumococco si parla di introdurre nel nuovo Piano nazionale vaccinazioni la raccomandazione per tutti (quindi non solo i bambini a rischio) dei vaccini contro le infezioni da meningococco C, papillomavirus (Hpv) e rotavirus. Quello contro il meningococco C, fra tutti, è il più accettato anche dai pediatri “critici”, perché percentualmente copre almeno il 50% delle probabilità, anche se, dicono loro, rimane un vaccino utile soprattutto per i bambini ad alto rischio. Gli altri due vaccini destano un po’ più di perplessità perché né l’anti-rotavirus nè l’anti-Hpv sono, al momento, vaccini costo-efficaci. I rotavirus sono virus che causano le più frequenti gastroenteriti dell’infanzia (vomito e diarrea) e colpiscono l’80% dei bambini fra la nascita e il compimento dei 5 anni. Molto fastidio, ma pochi rischi nei Paesi sviluppati, ed è un vaccino caro (anche per le tasche del Ssn) rispetto ai vantaggi che dà. I Papillomavirus si trasmettono con i rapporti sessuali, causano i condilomi, ma anche i tumori del collo dell’utero e alcuni tumori della vagina, dell’ano e della bocca. Di questi virus ce ne sono più di 100 tipi diversi, che vivono sulle mucose della bocca e degli organi genitali; quasi sempre l’organismo li elimina spontaneamente e il più delle volte non danno sintomi. I ceppi di Hpv responsabili del 90% dei casi di tumore al collo dell’utero sono 8 e i vaccini attualmente disponibili proteggono contro due di questi (il 16 e il 18) con un protezione incrociata su altri due ceppi (il 31 e il 45) e vanno somministrati in tre dosi. Nomi commerciali dei vaccini sono Gardasil -prodotto dalla joint venture Sanofi Pasteur-Merck & Co., autorizzato dall’Aifa con delibera del febbraio 2007 e un costo al pubblico di 188,15 euro (464.45 per le tre dosi)- e Cervarix -prodotto dalla multinazionale Glaxo Smith Kline, autorizzato dall’Aifa nell’ottobre 2007 e un costo al pubblico di 156,79 euro (470,37 per le tre dosi)-. Dal 2007 il ministero della Salute offre attivamente e gratuitamente il vaccino anti Hpv alle bambine nel dodicesimo anno d’età, età scelta non a caso visto che il vaccino non serve se il virus ha già infettato la donna che ha già avuto rapporti sessuali. L’obiettivo del ministero è raggiungere una copertura del 95% entro cinque anni, ma ad oggi solo il 59% delle adolescenti nate nel 1997 (circa 280mila) ha completato il ciclo vaccinale di tre dosi, e delle circa 800mila dosi di vaccino acquistate in tutto il territorio nazionale, una buona parte è rimasta inutilizzata. Forse perché mancano dati certi sulla copertura del vaccino e sui suoi effetti collaterali e non tutti i pediatri la consigliano. La Food and Drug Administration ha ammesso che non si può ancora dire in che misura il vaccino previene l’HPV, perché ci vogliono vent’anni prima che il tumore insorga dopo il contatto con il virus e gli studi sono iniziati da circa sei anni. L’ultimo studio della rivista Lancet sull’argomento dice che è necessario creare una nuova generazione di vaccini anti-Hpv polivalenti contro tutti i tipi di ceppi, perché si possa parlare di efficacia. Normale chiedersi perché questo vaccino sia stato introdotto con tanta fretta e venga spinto con tanto entusiasmo, visto che: in Italia non c’è alcuna epidemia di tumore al collo dell’utero; è statisticamente certo -lo afferma l’ultimo rapporto mondiale sui tumori Iarc-Who dell’Organizzazione mondiale della sanità- che il migliore strumento di prevenzione contro il tumore al collo dell’utero rimane lo screening (pap-test effettuato ogni tre anni che permette di individuare tempestivamente il 90% dei tumori da Hpv); una volta vaccinate, le donne devono comunque continuare a fare screening per prevenire i tumori causati dagli altri circa 80 tipi di Hpv; è un vaccino molto caro, non costo-efficace.
di Marta Pizzocaro
Fonte: http://www.altreconomia.it
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