lunedì 2 maggio 2011

ABBIAMO FAME: L’AFRICA IN RIVOLTA, NEL NOME DI SANKARA

Abbiamo fame». Semplice gesso bianco su un povero foglio di cartone trasformato in manifesto, dietro al quale spuntano occhi penetranti. Occhi scuri, quelli dell’Africa nera. Che fino a ieri esprimevano urgenze elementari: fame e paura. Da qualche giorno, la paura sta perdendo terreno: gli Uomini Integri, i “puri” burkinabé, sono in rivolta. Come il Maghreb, il Medio Oriente e metà del continente nero. Fame, paura e rabbia: la speculazione finanziaria mondiale gonfia i prezzi del grano e del riso, la corruzione locale frena la distribuzione e le redini del potere sono ancora in mano ai dittatori-stampella dell’Occidente, che ora è sul piede di guerra anche nel Mediterraneo, dove si sta giocando il suo futuro post-coloniale e l’accesso alle risorse strategiche. 

Del Burkina Faso, l’ex Alto Volta sperduto nel cuore dell’Africa, non era mai importato nulla a nessuno: poteva restare per sempre un semplice snodo logistico per il trasferimento protetto di minerali pregiati, estratti alle vicine frontiere. Ma quando nel 1984 il piccolo paese prese letteralmente fuoco, infiammato dalla rivoluzione più anomala dell’era della  decolonizzazione, terzomondista e libertaria, nonviolenta e neutralista, allora anche il Burkina Faso cominciò a preoccupare i padroni del mondo, spaventati da quel giovane kamikaze della libertà, evangelico e comunista, che rispondeva al nome di Thomas Sankara. Un capitano dell’esercito – l’unica struttura statale funzionante nel paese – capace di ripensare la vita collettiva in modo democratico, togliendo veleno all’economia e liberando la politica dall’abuso sistematico del potere. Da allora, per quattro anni, il Burkina Faso smise di avere fame. Cibo e assistenza sanitaria: minimo garantito, ma per tutti. Per la prima volta nella storia. 

«Abbiamo tutto quello che ci serve», ripeteva Sankara, «è inutile impegnarci con il commercio internazionale». Un’intenzione sana, letta come una minaccia dai gestori del trading mondiale, protagonisti della futura globalizzazione delle merci. Peggio: «Rifiutiamo l’aiuto finanziario della cooperazione», aggiungeva Sankara, «perché produce nuova schiavitù: non ci servono quei dollari, ci basta e avanza la nostra agricoltura». Il colpo di grazia arrivò nel giro di quattro anni, dopo il celebre discorso pronunciato alla conferenza panafricana di Addis Abeba. Un appello pericoloso, anche se tutt’altro che bellicoso, per la cancellazione del debito. «Ci avete sempre preso tutto, non vi dobbiamo niente: lasciateci in pace, e proviamo a vivere insieme, in modo dignitoso e autonomo». Avvertenza: «Se il Burkina Faso resterà solo nella richiesta di cancellazione del debito, io l’anno prossimo non sarò più qui a questa conferenza». Detto fatto: Sankara fu assassinato nella capitale Ouagadougu da un commando militare.

Dell’omicidio è tuttora sospettato l’attuale presidente Blaise Compaoré, vassallo della Francia, sotto la cui custodia politica si è affrettato a riportare l’eretico Burkina. Nonostante l’invito dell’Onu a «fare piena luce» sull’assassinio, nessuna indagine ufficiale è mai stata condotta. A parlare sono soltanto inchieste indipendenti. Che accusano Compaoré e il “signore della guerra” Charles Taylor, alle cui milizie Sankara aveva negato il territorio burkinabé. Tra i grandi accusati anche il libico Muhammar Gheddafi, che vedeva in Sankara – rivoluzionario autentico – un pericoloso rivale nel continente africano. Ma i mandanti, ripetono i giuristi firmatari della petizione internazionale per ottenere giustizia, vanno cercati altrove: sicuramente a Parigi, la capitale che tremò a lungo per il timore che l’intera Africa francese potesse imitare il Burkina ed emanciparsi dalla schiavitù neo-coloniale. 

Un omicidio eccellente, quello di Sankara, di cui si sospetta fosse al corrente anche la Cia: eliminare il leader della rivoluzione più libera e “autarchica” del mondo, profeta africano di una economia a chilometri zero, faceva comodo un po’ a tutti i dominus del grande business mondiale, quello che di lì a poco – caduta l’Urss – avrebbe finanziarizzato l’economia, mondializzando il traffico delle merci senza più limiti e gonfiato a dismisura il ricatto del debito, giungendo alla “crisi di sistema” che oggi tanto allarma Wall Street, la Casa Bianca e Bruxelles, ma al tempo stesso – grazie all’altra rivoluzione, quella mediatica e informatica – fa galoppare le informazioni in tempo reale. In questi giorni, anche i giovani di Ouagadougu si mobilitano via Facebook al grido “Compaoré degage”, via il dittatore, “Blaise come Ben Alì, ladro e assassino”.  

Si chiama Sankara anche l’attuale leader delle opposizioni civili, Bénéwendé Sankara: non è parente del presidente-martire, ma intanto il cognome è lo stesso. La parola Sankara basta da sola a svegliare un fantasma buono, più vivo che mai oggi che l’intera Africa minaccia di sollevarsi: avesse avuto a disposizione YouTube, Thomas Sankara forse oggi sarebbe ancora vivo. Era un comunicatore eccezionale, il Barack Obama dell’Africa nera. Dotato di una visione prodigiosamente acuta: tutto quello che sta succedendo oggi, dal Mediterraneo al cuore del continente più ricco e più sfruttato del mondo, è esattamente quello che il giovane leader rivoluzionario auspicava: lottare per rompere le dipendenze, spezzare le catene finanziarie e commerciali, restituire sovranità ai popoli, non far mancare a nessuno pane e speranza. Cibo, innanzitutto: perché chi sa prodursi il necessario per sopravvivere non ha più bisogno di “aiuti” rischiosi. Non è l’Africa che ha bisogno di noi: siamo noi che, fingendo di assisterla, la deprediamo da sempre. 

Le ultime cronache del Burkina Faso snocciolano un rosario di sofferenze e atrocità, simboleggiate dall’omicidio dello scomodo giornalista Norbert Zongo, il primo di una lunga serie di testimoni imbarazzanti. La lista si è allungata: il regime di Compaoré, che Sarkozy ha promosso “campione della pace” nella regione centrafricana, non ha esitato ad arrestare, torturare e sterminare oppositori, giovani e donne. Lo studente Justin Zongo, massacrato dalla polizia, ha dato il via all’ultima stagione di rivolte, tuttora in corso, con anche clamorosi ammutinamenti nelle file delle forze di sicurezza e dell’esercito. Settimane di cortei, disordini e scontri. Bilancio: centinaia di feriti e almeno 13 morti. L’ultimo era un ragazzino di 11 anni, ucciso il 29 aprile da una pallottola vagante. Spenta anche la voce libera del cantante Sams’K Le Jah: chiusa la sua trasmissione su Radio Ouaga, seguita via web in tutto il mondo (http://www.ouagafm.bf/).

Uganda, Nigeria, Costa d’Avorio: da una parte le dittature che presidiano le risorse strategiche per conto di un Occidente sempre più in crisi e terrorizzato dall’espansione della Cina, e dall’altra i popoli africani ridotti alla fame, esasperati dalla corruzione dei loro regimi dispotici e sanguinari. Thomas Sankara fu l’unico capo di Stato a invocare ufficialmente la liberazione di un certo Nelson Mandela, che all’epoca subiva il carcere duro a Robben Island. Oggi l’eroe anti-apartheid, Premio Nobel, è un’icona mondiale dei diritti, del riscatto e della libertà. Ma gli eredi del suo primo, strenuo difensore, dopo tanti anni vivono ancora nel terrore, sotto il pugno di ferro di uno spietato tiranno. «Abbiamo fame», ripetono i ragazzi di Ouagadougu. Qualcuno riuscirà ad ascoltarli?


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