Oggi si celebra la giornata dedicata alla memoria delle vittime del terrorismo, eroi immolati in nome della Giustizia, martiri di quell’Italia non ancora sfumata che affonda le sue radici nei principi della Costituzione. Francesco Coco, Vittorio Occorsio, Riccardo Palma, Girolamo Tartaglione, Fedele Callosa, Emilio Alessandrini, Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Mario Amato e tantissimi altri. Uomini normali, nati e vissuti in una terra che non ha più niente di normale. Il sacrificio di questi magistrati, morti per non vedere morire la Giustizia, dovrebbe imprimersi nelle menti lungimiranti di coloro che tentano, oggi, di distruggerne la dignità; di coloro che non mostrano neanche un mascherato rispetto per questi uomini che hanno posto la Giustizia dinanzi alla propria stessa vita e di coloro che non accennano a provare ritegno nello scrivere sui muri della propria città “Via le Br dalle Procure” e nel massacrare con delirante noncuranza, giorno dopo giorno, quei giudici altrettanto stimabili e rispettabili che tentano di far luce sui buchi neri della storia di questo Paese e di difendere quei princìpi costituzionali ormai gettati al vento.
Onore alla loro memoria. Onore alla memoria di Aldo Moro, trovato morto in via Caetani esattamente trentatré anni fa, dopo cinquantacinque giorni di prigionia, e onore agli uomini della sua scorta, vittime innocenti di un gioco troppo grande da cui gli esseri umani dovrebbero stare alla larga.
Onore anche alla memoria di un ragazzo che, in quei turbolenti anni, andava predicando ideali di Libertà in una terra asservita da decenni alla mafia. Un ragazzo che prendeva in giro boss mafiosi, politici collusi e cittadini troppo indolenti dal microfono di una stazione radio. Un giovane che aveva visto nella politica la strada per il cambiamento e nella parola un’arma più devastante di un esercito di pistole. Un ragazzo che blaterava frasi sulla Libertà e sulla necessità di una rivoluzione delle coscienze tale da sovvertire gli animi impantanati nel liquame della mafia, del malaffare, del mondo criminale.
Onore a Peppino Impastato, figlio di un mafioso e di una terra disgraziata, dalla quale la Legalità è partita per sempre per un viaggio di sola andata.
Peppino era cresciuto in una realtà in cui la Giustizia è il traslato della privazione di libertà, eppure lui era stato in grado di capire che la libertà non consiste nel sentirsi padroni del mondo, bensì nel poter camminare a testa alta per le strade della propria città urlando a squarciagola che “la mafia è una montagna di merda” e non aver paura. Aveva capito che “l'essenza della libertà è sempre consistita nella capacità di scegliere come si vuole scegliere e perché così si vuole, senza costrizioni o intimidazioni, senza che un sistema immenso ci inghiotta; e nel diritto di resistere, di essere impopolare, di schierarti per le tue convinzioni per il solo fatto che sono tue. La vera libertà è questa, e senza di essa non c'è mai libertà, di nessun genere, e nemmeno l'illusione di averla".
Peppino Impastato morì a trent’anni, sotto una carica di tritolo, legato ai binari di una ferrovia. Morì perché aveva avuto il coraggio di sfidare i boss, perché li sbeffeggiava e perché spingeva i suoi concittadini a fare lo stesso. Morì perché aveva tentato di vivere da uomo libero nella terra delle libertà negate e perché si era messo in testa di rivoluzionare Cinisi, Palermo e la Sicilia intera. Lo fecero passare per un terrorista suicida e lo ammazzarono proprio quando il fiato dell’Italia era sospeso sulla vicenda Moro, sul ritrovamento del suo cadavere. Eppure, a noi è giunto il ricordo di un ragazzo che sognava una Sicilia diversa e che sprecò ogni goccia della propria vita per realizzare questo suo grande sogno.
La storia di quest’uomo impone una grande riflessione alle nostre coscienze.
Peppino ci a insegnato che è meglio morire lottando per i propri sogni, piuttosto che vivere, stando a guardare, un mondo che ce li uccide; che non bisogna aver paura se a smuoverci sono ideali di Giustizia e Libertà; che la salita è ripida, ma, una volta arrivati in cima, si sfiora la leggerezza delle nuvole; che un mondo migliore è possibile; che finché ci sarà anche una sola voce a gridare battaglia, la guerra non è persa; che non siamo soli a combattere, perché gli angeli che ci hanno lasciato su questa terra ci tengono per mano lungo il percorso; che non si può essere solo spettatori di questa messinscena che è la vita; che prima o poi qualcuno ci chiederà quale ruolo abbiamo giocato nella partita; che i sogni degli uomini che ci hanno preceduto sopravviveranno ai vani tentativi di renderci tutti schiavi dell’indifferenza. Peppino ci ha insegnato che una vita contro la mafia non è una vita sprecata, ma una vita.
di Serena Verrecchia
Fonte: http://www.19luglio1992.com/
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