venerdì 29 ottobre 2010

Handicap psichico e disabilita' : un posto di cura vacante

di Andrea Gualandi*


Il percorso che si trova ad affrontare una persona con disabilità, o diversabilità come spesso si usa dire, è costellato di piccoli e grandi problemi. Il panorama attuale è ricco di iniziative che cercano di aiutare le persone con disabilità ad affrontare tali problemi e a trovare le soluzioni più adeguate alle loro esigenze: il sistema dei servizi che fanno direttamente capo alla A.S.L., le cooperative sociali (o altre forme associative) che con la loro creatività danno corpo a questi servizi e creano opportunità per sostenere i soggetti in questione e le loro famiglie, nonché le associazioni che fanno da stimolo alla società e all’istituzione pubblica affinchè i diritti delle persone interessate rimangano al centro delle politiche sociali ed economiche, ad esempio per quanto riguarda le politiche urbanistiche dove primeggia la questione delle barriere architettoniche.

E’ tuttavia ormai chiaro, almeno per molti che lavorano da anni sul campo, che uno dei nodi più importanti è di ordine culturale. La barriera più dura da abbattere non si trova tra la strada e il marciapiede, dove basta un piano inclinato, ma come si suol dire “nella testa delle persone.” Molti, con indubbi meriti, si occupano di difendere i diritti delle persone con handicap, la legislazione stessa è sempre in via di riforma per ridurre gli ostacoli, altri preferiscono ribaltare la prospettiva culturale del disabile che ha bisogno di aiuto e di assistenza, proponendo che, quando possibile, sia il disabile stesso ad aiutare gli altri.

Nonostante le consapevolezze e le conseguenti operatività siano ormai radicate nella coscienza di chi vive quotidianamente il mondo dei disabili, resta però il fatto che questi ultimi si trovano, per così dire, sotto accusa. La rivendicazione dei diritti, seppur per certi aspetti necessaria, spesso non tiene conto del pre-giudizio di in-competenza, fino ad inutilità, che il soggetto disabile rischia di incontrare ad ogni angolo. Per quanto frequentemente coperta e mascherata dal “buonismo” della carità “pelosa” (ovviamente non si tratta di carità, ma di finta carità: c’è una bella differenza), la sentenza di incompetenza è sempre pronta per essere formulata e la “condanna” è la perdita progressiva, e quel che è peggio la rinuncia, a qualsiasi inziativa individuale che abbia un fine di soddisfazione, condanna in cui il soggetto ormai si crede costretto a vivere.

E ’ per questo che sembra emergere l’urgenza di colmare un vuoto all’interno delle funzioni di aiuto, che non miri solo a difendere il soggetto dal lato dei suoi diritti verso le istituzioni (altri lo fanno già e abbondantemente) ma che lavori nella prospettiva di una difesa della personale competenza di quest’ultimo.

Il posto di cui parliamo è caratterizzato da una certa forma di «avvocatura» (o tutoraggio) in un rapporto individuale. Qualcuno che sollecitato dalla domanda individuale domanda di trattamento - rivoltagli dal soggetto stesso, dalla famiglia o da chi ne fa le veci - si metta a fianco della persona e l’aiuti ad orientarsi ed ad orientare la propria vita, avendo di mira il mantenimento e/o la ri-abilitazione, perciò la difesa, della sua individuale competenza, competenza ad usare della realtà di volta in volta incontrata secondo le proprie iniziative e i propri desideri, con il fine di ottenerne benefici e soddisfazioni possibili. Qualcuno che si ponga quindi a fianco del soggetto e ne prenda in un certo senso provvisoriamente le difese, in un momento delicato del suo percorso di vita, per far fronte a quelle (per quanto talvolta non dette) accuse, che spesso si rivelano infondate, di in-competenza e in-abilità.

Solo un esempio: una non corretta diagnosi differenziale tra impossibilità o inabilità per cause organiche effettivamente riscontrate e riscontrabili e incapacità dovute a rinuncia dell’ inziativa individuale, porta spesso a dilatare quella singola impossilità o handicap in una generale impossibilità di agire e di prendere iniziative. Un risultato di questi errori, in tantissimi casi, è il rinforzo della propensione melanconica o depressiva, a fare di ogni impossibilità e di ogni incapacità o insuccesso la ragione di un rinuncia al prendere in mano la propria vita in vista dei propri fini. Ed è qui che occorre una persona competente a riguardo di questi errori, che può sollecitare a percorrere ogni strada possibile per non giungere alla rinuncia di cui si è detto.

La formazione di un tale professionista è articolata: deve sapersi orientare e saper orientare – non certo sostituirsi ad altri professionisti o ai servizi preposti ai vari compiti, deve piuttosto sapersene servire – su quel che riguarda la diagnosi differenziale (tra patologia organica, psicopatologia, normalità). Ha competenza circa l’offerta di servizi di diagnosi, cura e assistenza presenti sul territorio, riguardo al quadro normativo del Servizio Sanitario e dei Servizi sociali, intorno alle provvidenze economiche di vario tipo e alle facilitazioni all’accesso al lavoro, circa gli aspetti giuridici che riguardano i soggetti incapaci di badare a se stessi.

Quale che sia l’intervento del professionista in oggetto – il servizio sanitario, la scuola, il tribunale, l’ospedale, la ricerca di un lavoro, il contesto di lavoro, ecc… – gli ambiti in cui è di volta in volta competente, sono quelli che possono favorire o ostacolare l’iniziativa e la riuscita del proprio cliente. La professione di cui stiamo delineando i contorni è in sostanza caratterizzata da una competenza che, di volta in volta, nel rapporto di aiuto, diviene la competenza stessa del cliente: in quanto il fattore principale della rinuncia all’iniziativa individuale in vista di un successo è proprio l’idea che il contesto in cui si è in difficoltà non sia affrontabile e padroneggiabile con competenza dal soggetto stesso.

Di figure professionale come queste - che presentano qualche aspetto di similitudine con gli health advocates, oppure ai tutors Inglesi, conosciuti da secoli, ad esempio nella scuola, da Oxford in poi - si sente ormai l'urgenza; al fine “individualizzare” l’intervento. Non stiamo delineando però una figura istituzionale, non è un “uomo dell’istituzione”. In alcun modo però il suo atteggiamento deve essere prevenuto verso le istituzioni sopra individuate; peraltro il suo operare trae origine da una consapevolezza necessaria alle società evolute, cioè che nessuna istituzione, per il suo intrinseco scopo e mandato, è esente dal rischio di diventare autoreferenziale.

La forma giuridica di operatività questo professionista potrebbe essere quella del contratto professionale (prestazione d’opera intellettuale) che per definizione è a termine; egli si caratterizza come un libero professionista poiché gli verrebbe data, da parte di chi lo assume, la delega ad occuparsi di uno o più aspetti della sua vita. Fin dal momento del contratto, potrà agire a servizio e in aiuto del soggetto in difficoltà quanto al recupero e alla difesa della sua competenza e della sua salute, e non direttamente al servizio degli interessi del contesto, anche se è vero che poi, in caso di successo, tutto il contesto ne trarrà benefici.

* psicoanalista e difensore della salute

Fonte: Osservatorio sulla Legalità 

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