sabato 30 ottobre 2010

Gli Stati Uniti lavano i panni sporchi in Nigeria

È sempre la stessa storia, navi cariche di computer, telefonini, televisori, tastiere e altri supporti tecnologici ormai vecchi o non più utilizzabili salpano dai porti statunitensi, australiani ed europei per attraccare in Africa, la discarica dell’Occidente.

È capitato in Nigeria, nella notte tra sabato 16 e domenica 17 ottobre, quando il cargo Grand America ha lasciato sulla banchina di Tin Can Island, prima di ripartire in fretta e furia verso nord, ben sette container di rifiuti tossici. Lo ha reso noto l’agenzia di stampa Misna, che è entrata in contatto con Sule Oyofo, un dirigente della “Nigerian Environmental Standards and Regulations Enforcement Agency” ( Nesrea). Un organismo, istituito intorno alla fine degli anni Ottanta, dopo uno dei capitoli più tristi della storia della pattumiera africana: ben 3500 tonnellate di rifiuti tossici dell’industria “made in Italy” furono riversate nella spiaggia di Koko, il cuore del Delta del Niger. Da allora le cose non sono cambiate.

Ma almeno questa volta, dice il dirigente della Nesrea, c’è stata una severa multa. Non per la Grand America, che con l’aiuto di qualche funzionario corrotto, è riuscita a scappare nella notte, ma per un altro cargo sempre Usa, Mv Veradin, arrivato sulle coste della Nigeria da New York dopo aver fatto scalo in Spagna. Nei container ritrovati c’erano i tubi catodici con il piombo e l’arsenico, vecchi computer con il mercurio, il nickel e il cadmio. Veleni che recano gravi danni all’ambiente e alla salute dell’uomo. Ma non sono casi isolati.

Si calcola che in Nigeria, giungono mensilmente più di 500 container colmi di rifiuti tecnologici. Solo nel 2005, ricorda Jim Puckett, il direttore del Basel Action Network, un’organizzazione non governativa con sede negli Stati Uniti, “in un solo mese nello Stato di Lagos arrivarono 400 container di spazzatura elettronica, quasi tutti provenienti da Nord America ed Europa”. Si tratta di pura e semplice convenienza. Rottamare un computer vecchio costa tanti soldi, portarlo in Nigeria o in qualche altro Paese sperduto dell’Africa si guadagna. Si parla addirittura di beneficenza. “Questi traffici sono spesso giustificati con l’esigenza di ridurre divario digitale che taglia il mondo in due”- si legge sulla Misna – “come dire, ti do computer di seconda mano per aiutarti, ma poi eludo i controlli e i cargo li riempio di spazzatura elettronica”. Si alimenta così un traffico di ecomafie con la complicità delle istituzioni locali.

Ma “i veri colpevoli – secondo Puckett – sono gli esportatori: incassano tariffe milionarie per il servizio”. Decontaminare e smaltire in sicurezza dei residui tossici costa più di mille dollari alla tonnellata, mentre gli smaltitori illeciti offrono prezzi fino a nove decimi più bassi, utilizzando vecchie navi, appartenenti a compagnie sospette che usano bandiere di comodo e che spesso cambiano durante il tragitto, nonostante sia vietato dal diritto internazionale.

In particolare, la Convenzione di Basilea del 1989 prevede condanne penali per i trafficanti di rifiuti pericolosi. Ma il paradosso è proprio qui: gli Stati Uniti, il primo Paese al mondo per il consumo di tecnologie, non hanno mai firmato la Convenzione.
di Francesca Dessì

Fonte: Rinascita

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