Sono i giornalisti calabresi minacciati dalle cosche e dai politici collusi, ma non fanno notizia. Il tribunale della mafia non ammette losi né scudi
Queste sono le storie di giornalisti calabresi minacciati dalla ‘ndrangheta. Ne abbiamo scelte otto e ci scusiamo con gli altri colleghi che a causa del loro lavoro sono costretti a vivere con l’alito fetente dei mafiosi sul collo. Quello che avviene in Calabria non accade in nessun’altra parte d’Italia. Perché qui la democrazia e i diritti costituzionali sono sospesi, la libertà d’informazione è limitata, la libertà di mercato non esiste, il monopolio della violenza non è prerogativa dello Stato, ma delle organizzazioni paramilitari della ‘ndrangheta che controllano ampie parti dei territori.
La politica ha margini ristrettissimi di autonomia nella selezione delle classi dirigenti e deve contrattare ogni passo, ogni scelta, con i boss. Soggetti che detengono pacchetti elettorali e soldi per finanziare campagne dei candidati, comprare deputati e consiglieri regionali, decidere le fortune di leader politici locali e nazionali. C’è un cono d’ombra informativo in Calabria, ha denunciato il procuratore Giuseppe Pignatone. Ha ragione. In Calabria non esistono pagine locali di quotidiani nazionali. Quelli a tiratura regionale sono finanziati da gruppi imprenditoriali che hanno variegati interessi, molti dei quali dipendenti dalle scelte della politica. Per questo in Calabria il mestiere di giornalista-giornalista è difficile e rischioso. Metti in gioco la tua sicurezza, rischi la tua vita. E il tuo lavoro, come è accaduto a Lucio Musolino col suo licenziamento per una odiosa “giusta causa”, come motivato dalla società editrice di Calabria Ora.
Intanto proprio ieri è stato arrestato – grazie alle testimonianze del neo pentito Nino Lo Giudice – Antonio Cortese, presunto bombarolo di Reggio, affiliato al clan del pentito, e ora indicato dallo stesso Lo Giudice come responsabile delle bombe alla procura generale (3 gennaio 2010), al portone di casa del procuratore generale Salvatore Di Landro (26 agosto) e dell’avvertimento del bazooka, fatto ritrovare dopo una telefonata anonima, vicino al tribunale di Reggio (5 ottobre). È sempre di moda, dopo arresti di questo tipo, l’esaltazione leghista, infatti ieri puntuale è arrivata dal Nord la nota del governatore del Veneto, Luca Zaia, per complimentarsi con il ministro degli Interni, Roberto Maroni.
“Il bisogno di sicurezza che gli italiani segnalano costantemente – ha approfittato Zaia – ha oggi una certezza: che la musica è cambiata e che i banditi, a cominciare da quelli più pericolosi, sono inesorabilmente destinati al carcere”. Non a caso l’ex ministro dell’agricoltura utilizza il termine “banditi”, per relegare il fenomeno mafioso a quello del banditismo, combattuto dai piemontesi di Cavour. Ma il questore Carmelo Casabona, parla di risultato che getta le basi per smascherare il “sistema-Reggio”, forse significa che c’è un altro livello dietro i banditi.
di Enrico Fierro e Giampiero Calapà
Lucio Musolino, 27 anni
Licenziato per ingiusta causa da un quotidiano regionale
“Smettila con la ‘ndrangheta. La benzina è per te non per la macchina” . È il tono della lettera che qualcuno ha lasciato nella mia veranda il 1° agosto. Una lettera accompagnata da una tanica piena di liquido infiammabile. Sono entrati nel mio cortile di notte, mentre la mia famiglia era in casa, tranquilla come al solito. Hanno violato la nostra intimità e hanno lanciato un messaggio mafioso. Nelle settimane precedenti avevo scritto del contenuto di un’informativa del Ros inserita nell’inchiesta Met. Con quell’indagine, il sostituto della Dda Giuseppe Lombardo ha messo le mani nell’intreccio ‘ndrangheta-politica che tiene sotto scacco Reggio e la Calabria.
Ho scritto che il governatore Giuseppe Scopelliti ha partecipato assieme a molti consiglieri comunali a una pranzo invitato dall’imprenditore arrestato Domenico Barbieri. Lo stesso pranzo a cui ha partecipato il boss Cosimo Alvaro, oggi latitante. Tutto confermato da Scopelliti ai microfoni del fattoquotidiano.it. Proprio con Alvaro aveva rapporti un consigliere comunale del Pdl, Michele Marcianò. I due sono stati intercettati mentre discutevano di tessere di Forza Italia e di posti di lavoro.
E sempre di posti lavoro barattati con 200 voti discutevano il consigliere comunale del Pdl Manlio Flesca con l’imprenditore Barbieri. Sono stato invitato ad Annozero e, in collegamento da Reggio, ho raccontato al collega Stefano Bianchi questa storia. La risposta è stata una minaccia di querela da parte di Scopelliti. Ma del contenuto di quell’informativa avevo scritto negli ultimi mesi. Sono passate poche settimane e il giornale per il quale lavoravo (Calabria Ora diretto da Piero Sansonetti) mi ha licenziato. Per “giusta causa”, è la motivazione. Ecco: in Calabria se scrivi di mafia e politica paghi prezzi altissimi. Ma ne vale la pena.
Agostino Pantano, 37 anni
“Indesiderato” in municipio
La prima volta, nel novembre 2007, ho sottovalutato, non ho denunciato, ho sbagliato. Avevo scritto un approfondimento su uno storico sequestro di beni della cosca Bellocco, nel paese del Reggino dove vivo, San Ferdinando e mia madre trovò sul parabrezza dell’auto di famiglia una busta con dentro un pesce dalla testa mozzata. Non sporsi denuncia per tranquillizzare i miei, rendendomi fragile di fronte alla tecnica del terrore che in questi casi parte da lontano per destabilizzare la quiete familiare e per farti provare la pressione dei congiunti che non vuoi esporre.
Nella primavera del 2008, invece, denunciai dopo aver trovato una gomma della mia auto dilaniata da diversi fendenti, mentre era parcheggiata nei pressi della redazione di Gioia Tauro del giornale per cui lavoravo all’epoca e di cui ero responsabile, Calabria Ora. In quei giorni scrivevo degli scandali che riguardavano diversi dirigenti del Comune di Gioia Tauro e dell’allora sospetta compiacenza degli amministratori verso le potenti cosche cittadine, Molè e Piromalli.
Sempre in quei giorni e sempre per i miei articoli, venni allontanato da una conferenza stampa indetta nel Municipio dal sindaco, e definito ad alta voce “indesiderato” dal suo figliolo perché il giorno prima, da solo, avevo dato conto di una perquisizione domiciliare notturna anche nei confronti del primo cittadino. Quest’ultimo, dopo il successivo scioglimento per mafia di quel consiglio comunale, oggi è sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito di un procedimento che vede alla sbarra anche il boss Pino Piromalli, lo stesso che in un’intercettazione ambientale in carcere, dialogando con i figli, si era sentito riferire che il mio giornale “è diventato vomitevole” per l’insistenza con cui scriveva della cosca.
Angela Corica, 26 anni
Proiettili sull’auto e la mia vita è cambiata
Cinque colpi di pistola contro l’auto parcheggiata sotto casa alle undici di sera il 29 dicembre del 2008. Sono passati due anni dal tentativo di intimidazione. Sembra ieri. L’“avviso” per zittirmi è arrivato in seguito a una inchiesta che avevo fatto qualche mese prima su una discarica di rifiuti abusiva nel Comune dove ancora vivo assieme alla mia famiglia, Cinquefrondi. Un posto sperduto nella Piana di Gioia Tauro dove vivono appena 6 mila persone. Dove si conoscono le facce, i nomi, la gente, l’indirizzo e quanto basta per renderti la vita difficile. I mesi successivi? Duri. Considerato che avevo 24 anni e avevo iniziato a scrivere da poco tempo per Calabria Ora.
La reazione alle pistolettate è stata diversa rispetto a quella attesa da chi ha scelto la forza per farmi capire che, comunque, stavo lavorando bene. Ho continuato, grazie a qualche collega a cui oggi devo tanto e grazie a un giornale che allora mi ha sostenuta, a fare il lavoro di sempre. Né più né meno. Non credo che sia stata la mafia ad interessarsi a me. Il Sud e, in particolare, i paesi interni della provincia reggina, devono prima fare i conti con un ambiente che non lascia spazio a chi la pensa in maniera diversa. Colpa di una cultura arretrata e dell’omertà. Da due anni gli attacchi ai giornalisti si sono moltiplicati. Come se non bastasse, nell’altalena di emergenze, la politica continua a fare la sua (non) parte o, nella peggiore delle ipotesi, la parte sbagliata.
Pietro Comito, 31 anni
Guardo mio figlio e penso: ne vale la pena?
Avevo appena piantato l’ombrellone in spiaggia, quella mattina del 4 luglio. Avrei lasciato mia moglie e mio figlio da lì a poco, per iniziare il consueto giro di cronaca. Mentre baciavo la fronte al bambino, il cellulare – quello di servizio, su un’utenza che al giornale consideriamo “riservata” – ha squillato: “Ti diamo due colpi di fucile e ti tagliamo la testa, poi ti buttiamo dietro il cimitero di Jonadi. La famiglia Soriano te la devi scordare”. Voce giovane, mi avvertiva: “Guardati le spalle”. I Soriano li conosco bene. Il “capo famiglia” prima mi fissava dalla gabbia del Tribunale di Vibo; ora che è scarcerato, in aula, al maxi-processo che lo vede imputato, è spesso il mio compagno di banco.
Avevo scritto di lui, ricordo quando dagli arresti domiciliari mandava comunicati ai giornali, come se la sua ‘ndrina fosse un partito. Col mio direttore si decise questo titolo in prima: “Ecco il boss che fa politica”. Il giorno precedente la telefonata, riportai le intercettazioni relative ad un’estorsione compiuta da un suo nipote – erede al trono del casato – appena finito in galera. Il giorno della telefonata scrissi come quello stesso ragazzo, boss in erba, pestò a sangue il preside di una scuola solo perché aveva rimproverato per un ritardo la cugina, figlia del “capo famiglia” mio compagno di banco nell’aula del tribunale. Fui il solo a farlo. Da allora il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza ha disposto una sorveglianza (discreta) sotto la redazione, sotto casa mia e sotto quella dei miei genitori. Ora vado avanti lo stesso col mio lavoro, anche se mi domando, guardando prima mia moglie e mio figlio e poi la deriva del giornalismo e della politica calabrese, se ne valga davvero la pena.
gli altri quattro giornalisti nel mirino dei clan
da Il Fatto Quotidiano del 21 ottobre 2010
Nessun commento:
Posta un commento