Siamo
entrati nell'euro per
mano dei tedeschi, anche se non avevamo le carte in regola, dopo avere
accettato un progetto di deindustrializzazione che ha reso poveri noi e ricchi
loro. Lo dice chiaramente Nino Galloni, altissimo funzionario del tesoro
all'epoca del sesto Governo Andreotti, in
questa intervista. E ora non usciamo dall'euro per non distruggere
Berlino. Lo dice altrettanto chiaramente questo articolo dello Spiegel, datato
13 giugno 2012, di cui riporto un estratto:
« Con
un’uscita dall’Euro e un taglio netto dei debiti la crisi interna italiana
finirebbe di colpo. La nostra invece inizierebbe proprio allora. Una gran parte
del settore bancario europeo si troverebbe a collassare immediatamente. Il
debito pubblico tedesco aumenterebbe massicciamente perché si dovrebbe
ricapitalizzare il settore bancario e investire ancora centinaia di miliardi
per le perdite dovute al sistema dei pagamenti target 2 intraeuropei. E chi
crede che non vi saranno allora dei rifiuti tra i paesi europei, non s’immagina
neanche cosa possa accadere durante una crisi economica così profonda.
Un’uscita dall’euro da parte dell’Italia danneggerebbe probabilmente molto più
noi che non l’Italia stessa e questo indebolisce indubbiamente la posizione della
Germania nelle trattative. Non riesco ad immaginarmi che in Germania a parte
alcuni professori di economia statali e in pensione qualcuno possa avere un
Interesse a un crollo dell’euro. » [Spiegel Online: Kurz vor dem Kollaps] (traduzione: Francesco Becchi)
Per
chi lavora Monti? Perché Angelo Panebianco ancora ieri sul Corriere
della Sera, nonostante sia ormai chiaro che l'uscita dall'euro è una manna per
l'economia italiana e non rappresenta la catastrofe che volevano farci credere,
arriva allora a dire che senza un vincolo esterno alla nostra democrazia (Nato,
Usa, UE e così via) l'Italia politica, lasciata sola, si disgregherebbe
arrivando a mettere in crisi la stessa esistenza dello Stato-nazione? Come si
può accettare che qualcuno parli del nostro Paese in questo modo, come se
potessimo esistere solo in un ambito di commissariamento continuo, sia esso
oscuro (come nel caso dei governi precedenti a quello attuale) o manifesto
(come nel caso del Governo Monti)? Non è forse alto tradimento accettare o
insinuare l'idea che la nostra sovranità non basti a se stessa?
Ho
incontrato Paolo Becchi alla stazione centrale di Milano, ieri. Mi sono fatto
un panino. Da buon genovese, si è fatto offrire il caffè. Non ci eravamo messi
d'accordo, ma eravamo entrambi indignati per lo stesso identico motivo: come è
possibile accettare parole come quelle di Panebianco?
Questo il
video che ho girato ieri. Questo, invece, l'articolo di Paolo comparso
questa mattina su Libero.
BASTA
CATASTROFISMI!
LIberarsi
dei vincoli della moneta si può
Nella
discussione sulla «crisi» della moneta unica e sulle possibilità di uscita
dall’euro, ci siamo finalmente liberati di un tabù economico. Dopo le prese di
posizioni di molti autorevoli economisti, anche alcuni dei partiti che
sostengono l’attuale governo sono stati costretti ad ammettere che un
ritorno alle monete nazionali potrebbe presentare, dal punto di vista
economico, una serie di vantaggi.
Ma
lo spettro della «catastrofe economica», scacciato dalla porta, rientra dalla
finestra sotto mentite spoglie, quelle della «catastrofe politica». Si ammette
che uscire dall’euro potrebbe rappresentare una soluzione meno dolorosa
dell’agonia provocata dall’attuale unione monetaria, ma, nel contempo, si alza
la posta in gioco: ciò provocherebbe, infatti, «forti rischi» sia per la
democrazia politica che la stessa integrità dello Stato nazionale.
Tale
è la tesi sostenuta da Angelo Panebianco, in un recente intervento sulle
pagine del Corriere della Sera («Moneta unica e democratica», 21 Giugno 2012):
la fine della moneta unica annuncerebbe, ora, una «catastrofica dissoluzione di
quasi tutto ciò che è stato costruito in sessanta anni di integrazione
europea». Secondo Panebianco, la stabilità del sistema politico e democratico
italiano sarebbe inseparabile dalla presenza di un «vincolo esterno». L’Italia
avrebbe, in altri termini, trovato la propria stabilità non tanto nelle proprie
tradizioni culturali e politiche, quanto da una sere di vincoli e costrizioni
esterne («la Nato e, per essa, il rapporto con l'America, la Comunità europea
in subordine») senza le quali la stessa unità nazionale sarebbe stata destinata
a disgregarsi dall’interno. Senza la moneta unica, sembra doversi concludere,
verrebbe meno non tanto la stabilità economica dei Paesi europei, quanto la
stessa esistenza dell’Italia, dello Stato-nazione.
Ora
che lo spauracchio della «crisi economica» è stato smentito, ecco dunque farsi
avanti l’incubo politico, ed il suo scenario catastrofista: democrazia a
rischio, vuoti improvvisi di stabilità, forse la guerra civile. Ma noi non
possiamo permetterci, soprattutto oggi, questa assuefazione alla
catastrofe, questo senso di paura di vedere lo Stato disgregarsi («Né
disgregazione né assuefazione», era il titolo di uno splendido editoriale di
Claudio Magris, scritto nell’annus horribilis della Repubblica 1993).
La
realtà è, tuttavia, rovesciata. È, infatti proprio la moneta unica che
costituisce, oggi, il «vincolo esterno» che impedisce all’Italia di poter
rivendicare la stessa sovranità e stabilità interna. È la moneta unica che è in
crisi perché non è stata uno strumento efficiente nel favorire quel processo di
unificazione politica dell’Europa a cui era preordinata. L’integrazione
politica degli Stati era stata pensata al fine di evitare altri milioni di
morti in Europa, ma ha finito per produrre miseria e desolazione.
La
presenza di costrizioni ed influenze esterne sul nostro Paese,
inoltre, è proprio ciò che ha impedito all'Italia di divenir nazione, per
restare un Paese irrisolto e debole, una patria «mancata» e contestata, uno
Stato-ombra, una provincia, un’espressione geografica. Proprio quei «vincoli
esterni» hanno reso possibile l’«anomalia» italiana, la sua «nazionalizzazione
contrastata ed imperfetta » (Soldani-Turi). Panebianco sembra confondere la
«stabilità» di una nazione con la sua dipendenza economica e politica. E se si
può dire che questo Paese è rimasto «stabile» proprio perché gli è stato
impedito di divenire una nazione, allora, proprio dal punto di vista politico,
varrebbe la pena di domandarsi se non sia finalmente giunto il momento di liberarsi
da questa stagnante «stabilità».
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