Fonte:www.italiaglobale.it |
Non
ci fa solo dipendere dai mercati finanziari internazionali, ma produce anche un
rallentamento del Pil. Che storicamente è cresciuto in media del 3,9% annuo con
un rapporto debito/Pil sotto il 90% ed è sceso dell’1,1% con un rapporto
superiore al 90%.
A
partire dagli anni 2000, l’Italia è cresciuta in termini demografici, con il 7%
in più di residenti, persino gli occupati sono aumentati dell’8%, ma il Pil si
è fermato a solo il 4,1% in più in termini reali. Continueremo a essere
eterodiretti finché permarrà la zavorra del debito pubblico e la dipendenza
dall’andamento dello spread. Perché il debito copiosamente accumulato nel
ventennio passato non ci fa solo dipendere in misura eccessiva dai mercati
finanziari internazionali, ma ci ha tolto anche slancio nella creazione di
valore. Oltre alle fragilità derivanti dai costi del rifinanziamento, il debito
eccessivo produce un rallentamento del tasso di crescita del Pil, perché determina
alta tassazione e bassi investimenti pubblici, provocando il calo dei consumi
privati, l’indebolimento della domanda aggregata interna, la riduzione
dell’autonoma iniziativa dei cittadini e quindi un calo dell’imprenditorialità.
L’ultimo ventennio è stato infatti caratterizzato da un crescente indebitamento
e da una bassa dinamica del Pil. A partire dal 1861, il Pil italiano è
cresciuto mediamente del 3,9% annuo quando il rapporto debito/Pil si manteneva
al di sotto del 90%, mentre è sceso mediamente dell’1,1% nei periodi in cui il
rapporto era superiore al 90%. Gli interessi pesavano 10 punti di Pil nel 1990,
saliti a 12,6 punti nel 1993, per poi scendere progressivamente fino a 4,6
punti nel 2010, l’ultimo annuo di tregua prima della risalita dello spread.
La
via più efficace per ridurre il debito non è coercitiva. Ogni ulteriore forma
di tassazione o di imposta patrimoniale andrebbe esclusa, per gli effetti
ulteriormente depressivi sull'economia e la società che ne deriverebbero. Per
recuperare le risorse necessarie occorre utilizzare il patrimonio pubblico. Ma
oggi la vendita delle partecipazioni sarebbe controproducente, visti gli
attuali andamenti di borsa. E la dismissione del patrimonio immobiliare non
sarebbe conveniente, con un mercato stagnante come in questa fase. Sarebbe più
efficace un conferimento degli asset a fondi o altri strumenti di
intermediazione che possano produrre risultati immediati attraverso la
sottoscrizione di quote da parte dei cittadini.
Ma
bisogna anche ricostruire la politica dalla rappresentanza, che persegua
interventi di medio-lungo termine sui conti pubblici, a livello nazionale, e
svolga un ruolo attivo nell'adeguamento degli strumenti di governo monetario, a
livello europeo e globale. Oggi il qualunquismo, incattivito dalla crisi e
dalle scarse prove di sé date da istituzioni e forze politiche, si esercita
nella delegittimazione di ogni luogo di decisione istituzionale e di ogni forma
di rappresentanza sospettata di continuità con il passato, spingendo il
personale politico all'ansiosa rincorsa delle esasperazioni antipolitiche del
momento. Ricomporre mosaici di domande sociali differenziate è difficile,
soprattutto in fasi di crisi. Confrontarsi con orientamenti mutevoli è
complicato, soprattutto quando non si possiedono paradigmi interpretativi
consolidati e si è sottoposti a continue tensioni delegittimanti. Ma non c’è
altra strada se non quella della ricostruzione della capacità di dare
rappresentanza ai tanti soggetti e interessi che innervano il tessuto socio-economico
del Paese attraverso il radicamento nei luoghi materiali (i territori) e
virtuali (le reti sociali) dove essi si manifestano.
«Le uscite possibili» è l’argomento di cui si è parlato oggi al Censis, a partire da un testo elaborato nell’ambito dell’annuale appuntamento di riflessione di giugno «Un mese di sociale», giunto alla ventiquattresima edizione, dedicato quest’anno al tema «La crisi della sovranità». Sono intervenuti il Presidente del Censis Giuseppe De Rita, il Direttore Generale Giuseppe Roma, Giuliano Amato, Giuliano Ferrara, Massimo Franco, Antonio Pedone e Mario Sarcinelli.
Fonte: http://www.censis.it
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