Gli Stati Uniti d’Europa come unica soluzione per salvare l’euro. Lo scrive senza esitazioni il giornalista del Guardian, Ian Traynor, che nell’articolo dedicato alla crisi dell’Eurozona affronta la questione con grande pragmaticità.
“Si tratta di eventi in rapido movimento, che rispondono ad una strategia per l’unione fiscale e politica del continente attualmente in fase di elaborazione”.
Una politica della crisi dell’euro che evolve con grande velocità: “appena 15 giorni fa l’attenzione generale era tutta incentrata sul nuovo Presidente francese François Hollande, che prometteva a Parigi la crescita prima di precipitarsi verso la sua prima missione: sfidare l’Austerity della cancelliera Angela Merkel. Ma oggi abbiamo bisogno di nuove soluzioni. Ormai tutto è sul tavolo”.
Sul braccio di ferro “crescita contro austerity”, il Presidente francese sembrerebbe aver fatto un passo indietro già nell’ultimo incontro, quando la Merkel ha sottolineato le priorità della zona euro mettendo sul tavolo misure radicali e federaliste: “la perdita graduale della sovranità nazionale per quanto riguarda le politiche di bilancio, fiscali, sociali, delle pensioni e del mercato del lavoro, con lo scopo di creare una nuova unione politica europea entro i prossimi cinque-dieci anni”.
Il summit di fine mese sarà decisivo.
E’ qui, infatti, che i leader europei discuteranno degli Use, gli Stati Uniti d’Europa: un’“unione politica” in virtù della quale ogni paese membro cederebbe i propri poteri fondamentali a Bruxelles, Lussemburgo e Strasburgo (una soluzione lontanissima dalle aspettative della maggior parte dei paesi in crisi).
Il messaggio di Berlino sembra chiaro: se la Germania deve accollarsi i fallimenti altrui, dovranno essere adottate misure incisive per l’integrazione, volte al raggiungimento di un’unione bancaria, fiscale e politica di tutta l’eurozona. Si tratta di un progetto che suscita molte perplessità e che la stessa Angela Merkel non ha sempre appoggiato, ma “ora che la crisi si è fatta incandescente, pare proprio che non resti alternativa”.
Il motivo di un simile disegno non risiede nella volontà di salvare la Grecia, il Portogallo, le banche spagnole o italiane, ma nel cercare di persuadere i mercati finanziari dimostrando effettivamente di voler salvare l’euro.
Tra le enormi conseguenze di un nuovo, eventuale Trattato la prima riguarderebbe senza dubbio la crescita esponenziale di quel “deficit democratico” di cui tanto si sente parlare oggi. Gli stessi presupposti elettorali, infatti, cesserebbero di esistere perdendo il loro significato: che senso avrebbe andare a votare un governo nel proprio paese se nella nuova eurozona unita le politiche fiscali, di spesa, delle pensioni e del lavoro fossero decise a Bruxelles? Per non parlare dei rancori reciproci tra i paesi, nutriti dal fatto che, assai probabilmente, non tutte le nazioni avrebbero lo stesso potere decisionale.
La crisi ha reso la scelta, ormai, inesorabilmente complicata: la morte dell’euro o la nascita di una nuova Europa.
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