Da
Capaci a Palermo. 23 maggio, 19 luglio. 57 giorni separano l'attentato a
Giovanni Falcone da quello a Paolo Borsellino. Entrambi uccisi, insieme con gli
agenti della loro scorta, in quello che è tristemente diventato l'annus
horribilis delle stragi mafiose. Il 1992.
Vent'anni di domande ancora senza risposta. L'ultima inchiesta condotta dal procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, indica come presunti responsabili boss e picciotti ma, tra false testimonianze, depistaggi e ricostruzioni di comodo, si intravvedono frammenti di un’altra verità che allargano la rosa delle responsabilità a piani e livelli più alti, anche politici.
Borsellino era l'unico che poteva raccogliere l'eredità di Falcone nel comprendere gli ingranaggi interni alle cosche e svelare le oscure architetture erette con il contributo di pezzi della politica. Già allora aveva avuto sentore della presunta trattativa avviata tra lo Stato e la mafia, e forse ci stava lavorando dopo essere venuto a conoscenza dei colloqui tra l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino e i carabinieri.
Paolo Borsellino era rimasto il solo a poter contrastare la piovra e i suoi molteplici tentacoli, e svelare i suoi inconfessabili intrecci con il potere. Per questo andava fermato. Come Falcone, più di Falcone.
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