L'Italia
delle religioni. Quando la Chiesa dettava le linee di ogni sicilianismo
giustificazionista, e non solo ecclesiastico.
Sino agli anni Sessanta del XX secolo non si
registra una presa di coscienza esplicita della chiesa cattolica e delle chiese
protestanti sul fenomeno mafioso. Nel 1963 il pastore Pietro Valdo Panascia
ruppe questa tradizione di silenzio con un manifesto di denuncia
responsabilizzante dal titolo Iniziativa per il rispetto della vita affisso per
le strade di Palermo dopo la strage di Ciaculli. La notizia arrivò in Vaticano
da dove partì per l'arcivescovo della città - il cardinale Ernesto Ruffini -
l'autorevole sollecitazione a intraprendere qualche iniziativa analoga. Il
destinatario della sollecitazione della Segreteria di Stato rispose a giro di
posta: "Conoscevo già il manifesto pubblicato dal Pastore valdese:
iniziativa molto facile, che ha lasciato il tempo di prima! A Palermo è stato
giudicato un ridicolo tentativo di speculazione protestante. Mi sorprende
alquanto che si possa supporre che la mentalità della così detta mafia sia
associata a quella religiosa. E' una supposizione calunniosa messa in giro,
specialmente fuori dall'Isola di Sicilia, dai socialcomunisti, i quali accusano
la Democrazia Cristiana di essere appoggiata dalla mafia, mentre difendono i
propri interessi economici in concorrenza proprio con organizzatori mafiosi o
ritenuti tali". Poi, l'anno successivo, pubblicò una lettera pastorale per
contrastare "una grave congiura per disonorare la Sicilia", di cui
individuava i tre maggiori responsabili: "la mafia, il Gattopardo, Danilo
Dolci". Sul primo dei tre fattori disonoranti, il presule attribuisce a
"una propaganda spietata, mediante la stampa, la radio, la
televisione" la responsabilità di "far credere in Italia e all'estero
che di mafia è infetta largamente l'Isola, e che i Siciliani, in generale, sono
mafiosi, giungendo così a denigrare una parte cospicua della nostra Patria,
nonostante i grandi pregi che la rendono esimia nelle migliori manifestazioni
dello spirito umano". Il cardinale si esibisce anche in una sorta di
excursus storico:
"Prima del 1860 sembra che nessuno parlasse
mai di mafia" . Poi si usò il vocabolo per designare i partigiani filo-
garibaldini, infine "assunse il valore attuale di associazione per
delinquere". Quindi egli detta le linee di ogni futuro sicilianismo
giustificazionista, non solo ecclesiastico.
In primis: "la mafia è sempre stata costituita da una sparuta minoranza". Inoltre: "se è vero che il nome di mafia è locale, ossia proprio della Sicilia, è pur vero che la realtà che ne costituisce il significato esiste un po' ovunque e forse con peggiore accentuazione. Per non rifarmi a vecchie date, chiunque abbia letto anche di recente i giornali ha potuto notare - non di rado con somma indignazione e forte deplorazione - delitti inqualificabili commessi altrove, in Europa e fuori, da bande perfettamente organizzate. Quelle città e quelle Nazioni hanno il vantaggio di potere isolare le loro nefandezze, non avendo un nome storico che le unisca, ma non per questo giustizia e verità permettono che si faccia apparire il popolo di Sicilia più macchiato delle altre genti".
Ora: che i mafiosi costituiscano una minoranza
statistica dei siciliani (5.000 uomini d'onore su 5.000.000 di abitanti: l'uno
per mille!) era vero negli anni Sessanta del secolo scorso ed è vero oggi. Ma
la questione grave - che né Ruffini né la Chiesa cattolica né la quasi totalità
del mondo intellettuale e politico anche 'laico' hanno compreso - è che la
mafia non è solo una cosca (o, meglio, un grappolo di cosche), bensì un sistema
di potere. Quel nucleo duro di "uomini d'onore" può contare su una rete
molto più estesa di relazioni sociali, di clientele, di scambi di favori, di
connivenze, di protezioni politiche: secondo gli attendibili calcoli di Tommaso
Buscetta (uno dei "collaboratori di giustizia" più perniciosi per il
muro d'omertà) si tratta di circa 1.000.000 di siciliani (un quinto della
popolazione!). Con queste considerazioni basate su dati oggettivi, il
teorema-Ruffini si sgretola completamente: i mafiosi non sono mosche bianche su
una torta innocente, ma una consistente minoranza. E i siciliani, che
certamente non sono in blocco mafiosi - e che anzi hanno dato alla lotta alla
mafia, dal 1860 a oggi, un tributo altissimo di idee e di sangue -, portano la
responsabilità storica di non essersi liberati (con le armi della cultura,
dell'etica, della pedagogia, della politica e dell'economia pulita) da questo
tumore infettante. E non certo perché le "nefandezze" dei mafiosi, a
differenza dei crimini nel resto del mondo, hanno "un nome storico che le
unisca"! Completando un'immagine cara a Giovanni Falcone, si potrebbe dire
che la Sicilia è un'arena in cui il toro-mafia (1.000.000 di criminali e di
complici) si scontra con il torero-antimafia (1.000.000 di cittadini eroici e
di sostenitori attivi): ma le sorti della lunga guerra saranno decise dai 3.000.000
di spettatori che assistono dalle tribune facendo il tifo ora per il toro ora
per il torero, senza decidersi di scendere nell'arena per l'uno o per l'altro .
In questo quadro, dove sono i cristiani di tutte le chiese? Solo pochi sono davvero compromessi con il sistema di potere mafioso. Altrettanto pochi sono schierati - senza 'se' e senza 'ma', concretamente e quotidianamente - contro il dominio criminale: La stragrande maggioranza dei cristiani, senza nessuna differenza significativa fra le diverse confessioni (e temo che il fenomeno si riproduca anche nelle comunità religiose di altri credi che si vanno impiantando nel Meridione italiano: dagli islamici agli induisti), si trova là dove si trova la stragrande maggioranza dei siciliani: in un'illusoria no man's land (né con la mafia né contro la mafia) che costituisce la più solida garanzia di permanenza per i mafiosi e per i loro alleati. Da questa neutralità apparente - che è però complicità sostanziale - le chiese cristiane potranno uscire non solo assecondando i processi evolutivi dei settori sociali più informati e meno compromessi (vedi i giovani di "Addiopizzo", gli imprenditori di "Liberofuturo", i cittadini di "Liberiprofessionisti"), ma anche rivedendo le basi della propria teologia e della propria pratica spirituale. Sino a quando il Dio dei cristiani sarà un Dio da onorare nei templi di pietra e non soprattutto nei templi di carne; un Dio che decide insindacabilmente della vita e della morte dei suoi figli e non un Dio che è sempre dalla parte di chi lotta, di chi soffre e di chi muore; un Dio che connota e protegge l'Occidente bianco e non il Padre comune dell'intera umanità, a cominciare dagli impoveriti del pianeta.sino a quando , insomma, questo Dio assomiglierà troppo al Dio dei mafiosi e troppo poco al Dio di Gesù, le chiese cristiane non avranno una loro 'lettura' specifica della mafia e non porteranno, al più ampio movimento antimafia, un contributo originale.
di Augusto Cavadi
Contributo dell'autore al volume "Un cantiere senza progetto. L'Italia delle religioni. Rapporto 2012", uscito in questi giorni a cura di P. Naso e B. Salvarani (EMI, Bologna 2012, pp. 368, euro 18,00).
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