sabato 7 luglio 2012

CHIESE CRISTIANE E MAFIE


L'Italia delle religioni. Quando la Chiesa dettava le linee di ogni sicilianismo giustificazionista, e non solo ecclesiastico.

Sino agli anni Sessanta del XX secolo non si registra una presa di coscienza esplicita della chiesa cattolica e delle chiese protestanti sul fenomeno mafioso. Nel 1963 il pastore Pietro Valdo Panascia ruppe questa tradizione di silenzio con un manifesto di denuncia responsabilizzante dal titolo Iniziativa per il rispetto della vita affisso per le strade di Palermo dopo la strage di Ciaculli. La notizia arrivò in Vaticano da dove partì per l'arcivescovo della città - il cardinale Ernesto Ruffini - l'autorevole sollecitazione a intraprendere qualche iniziativa analoga. Il destinatario della sollecitazione della Segreteria di Stato rispose a giro di posta: "Conoscevo già il manifesto pubblicato dal Pastore valdese: iniziativa molto facile, che ha lasciato il tempo di prima! A Palermo è stato giudicato un ridicolo tentativo di speculazione protestante. Mi sorprende alquanto che si possa supporre che la mentalità della così detta mafia sia associata a quella religiosa. E' una supposizione calunniosa messa in giro, specialmente fuori dall'Isola di Sicilia, dai socialcomunisti, i quali accusano la Democrazia Cristiana di essere appoggiata dalla mafia, mentre difendono i propri interessi economici in concorrenza proprio con organizzatori mafiosi o ritenuti tali". Poi, l'anno successivo, pubblicò una lettera pastorale per contrastare "una grave congiura per disonorare la Sicilia", di cui individuava i tre maggiori responsabili: "la mafia, il Gattopardo, Danilo Dolci". Sul primo dei tre fattori disonoranti, il presule attribuisce a "una propaganda spietata, mediante la stampa, la radio, la televisione" la responsabilità di "far credere in Italia e all'estero che di mafia è infetta largamente l'Isola, e che i Siciliani, in generale, sono mafiosi, giungendo così a denigrare una parte cospicua della nostra Patria, nonostante i grandi pregi che la rendono esimia nelle migliori manifestazioni dello spirito umano". Il cardinale si esibisce anche in una sorta di excursus storico: "Prima del 1860 sembra che nessuno parlasse mai di mafia" . Poi si usò il vocabolo per designare i partigiani filo- garibaldini, infine "assunse il valore attuale di associazione per delinquere". Quindi egli detta le linee di ogni futuro sicilianismo giustificazionista, non solo ecclesiastico.

In primis: "la mafia è sempre stata costituita da una sparuta minoranza". Inoltre: "se è vero che il nome di mafia è locale, ossia proprio della Sicilia, è pur vero che la realtà che ne costituisce il significato esiste un po' ovunque e forse con peggiore accentuazione. Per non rifarmi a vecchie date, chiunque abbia letto anche di recente i giornali ha potuto notare - non di rado con somma indignazione e forte deplorazione - delitti inqualificabili commessi altrove, in Europa e fuori, da bande perfettamente organizzate. Quelle città e quelle Nazioni hanno il vantaggio di potere isolare le loro nefandezze, non avendo un nome storico che le unisca, ma non per questo giustizia e verità permettono che si faccia apparire il popolo di Sicilia più macchiato delle altre genti".
Ora: che i mafiosi costituiscano una minoranza statistica dei siciliani (5.000 uomini d'onore su 5.000.000 di abitanti: l'uno per mille!) era vero negli anni Sessanta del secolo scorso ed è vero oggi. Ma la questione grave - che né Ruffini né la Chiesa cattolica né la quasi totalità del mondo intellettuale e politico anche 'laico' hanno compreso - è che la mafia non è solo una cosca (o, meglio, un grappolo di cosche), bensì un sistema di potere. Quel nucleo duro di "uomini d'onore" può contare su una rete molto più estesa di relazioni sociali, di clientele, di scambi di favori, di connivenze, di protezioni politiche: secondo gli attendibili calcoli di Tommaso Buscetta (uno dei "collaboratori di giustizia" più perniciosi per il muro d'omertà) si tratta di circa 1.000.000 di siciliani (un quinto della popolazione!). Con queste considerazioni basate su dati oggettivi, il teorema-Ruffini si sgretola completamente: i mafiosi non sono mosche bianche su una torta innocente, ma una consistente minoranza. E i siciliani, che certamente non sono in blocco mafiosi - e che anzi hanno dato alla lotta alla mafia, dal 1860 a oggi, un tributo altissimo di idee e di sangue -, portano la responsabilità storica di non essersi liberati (con le armi della cultura, dell'etica, della pedagogia, della politica e dell'economia pulita) da questo tumore infettante. E non certo perché le "nefandezze" dei mafiosi, a differenza dei crimini nel resto del mondo, hanno "un nome storico che le unisca"! Completando un'immagine cara a Giovanni Falcone, si potrebbe dire che la Sicilia è un'arena in cui il toro-mafia (1.000.000 di criminali e di complici) si scontra con il torero-antimafia (1.000.000 di cittadini eroici e di sostenitori attivi): ma le sorti della lunga guerra saranno decise dai 3.000.000 di spettatori che assistono dalle tribune facendo il tifo ora per il toro ora per il torero, senza decidersi di scendere nell'arena per l'uno o per l'altro .

In questo quadro, dove sono i cristiani di tutte le chiese? Solo pochi sono davvero compromessi con il sistema di potere mafioso. Altrettanto pochi sono schierati - senza 'se' e senza 'ma', concretamente e quotidianamente - contro il dominio criminale: La stragrande maggioranza dei cristiani, senza nessuna differenza significativa fra le diverse confessioni (e temo che il fenomeno si riproduca anche nelle comunità religiose di altri credi che si vanno impiantando nel Meridione italiano: dagli islamici agli induisti), si trova là dove si trova la stragrande maggioranza dei siciliani: in un'illusoria no man's land (né con la mafia né contro la mafia) che costituisce la più solida garanzia di permanenza per i mafiosi e per i loro alleati. Da questa neutralità apparente - che è però complicità sostanziale - le chiese cristiane potranno uscire non solo assecondando i processi evolutivi dei settori sociali più informati e meno compromessi (vedi i giovani di "Addiopizzo", gli imprenditori di "Liberofuturo", i cittadini di "Liberiprofessionisti"), ma anche rivedendo le basi della propria teologia e della propria pratica spirituale. Sino a quando il Dio dei cristiani sarà un Dio da onorare nei templi di pietra e non soprattutto nei templi di carne; un Dio che decide insindacabilmente della vita e della morte dei suoi figli e non un Dio che è sempre dalla parte di chi lotta, di chi soffre e di chi muore; un Dio che connota e protegge l'Occidente bianco e non il Padre comune dell'intera umanità, a cominciare dagli impoveriti del pianeta.sino a quando , insomma, questo Dio assomiglierà troppo al Dio dei mafiosi e troppo poco al Dio di Gesù, le chiese cristiane non avranno una loro 'lettura' specifica della mafia e non porteranno, al più ampio movimento antimafia, un contributo originale.

di Augusto Cavadi

Contributo dell'autore al volume "Un cantiere senza progetto. L'Italia delle religioni. Rapporto 2012", uscito in questi giorni a cura di P. Naso e B. Salvarani (EMI, Bologna 2012, pp. 368, euro 18,00). 

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